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Visite di controllo ripetute e persecutorie: risarcimento del danno?


Ordine Informa

Il comportamento persecutorio da parte del datore può essere posto in atto anche da una serie di comportamenti di per sé leciti ma che presi nel loro insieme hanno una finalità illecita e, in conseguenza di ciò, il lavoratore può chiedere il relativo risarcimento
Di regola, il risarcimento di ogni danno, ivi compreso quello biologico, presuppone la natura illecita del comportamento che l’ha cagionato. Tuttavia, i giudici [1] hanno determinato che, a certe condizioni, anche un comportamento in astratto lecito può essere fonte di risarcimento. A tal proposito è stato detto che le reiterate visite di controllo sul lavoratore assente per malattia, richieste dal datore di lavoro, possono configurare un comportamento persecutorio, con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento dei danni subiti a causa di tale comportamento. Come è facile intuire, l’importanza della cosa sta nel fatto che è stato riconosciuto il diritto al risarcimento in un caso in cui il danno era stato causato da un fatto di per sé lecito.
La vicenda
Più precisamente, un datore di lavoro aveva continuativamente chiesto il controllo sulla malattia di una lavoratrice che si era assentata dal lavoro per sindrome ansioso-depressiva. L’esercizio di questo diritto era tanto più vessatorio, se si pensa non solo alla sistematicità del controllo, ma anche al fatto che, puntualmente, il controllo si concludeva con la conferma della persistenza della malattia. Pertanto la lavoratrice, dopo essersi dimessa, si era rivolta al Giudice del Lavoro, sostenendo che l’assillo delle quotidiane visite di controllo aveva aggravato e stabilizzato la sua malattia, chiedendo quindi il risarcimento dei danni subiti.
Il Tribunale, in sede di appello, aveva riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro, condannandolo al risarcimento del danno biologico, del danno alla capacità lavorativa, del danno morale e del danno patrimoniale, quest’ultimo sotto il profilo della perdita di guadagno conseguente alle dimissioni. La sentenza della Corte di cassazione ha sostanzialmente confermato il tutto, riconoscendo dunque che anche l’esercizio di un diritto, se avviene con modalità vessatorie, può cagionare un danno risarcibile.
Gli effetti della sentenza
La pronuncia è tanto più importante se si pensa che nel nostro ordinamento il presupposto per il risarcimento del danno è la natura illecita del fatto che lo ha cagionato. In altre parole, anche l’esercizio di un diritto può causare un danno; tuttavia, tale danno, proprio perché causato da un comportamento lecito, non può trovare risarcimento. Ebbene, nel caso esaminato dalla sentenza in questione, il comportamento del datore di lavoro non costituiva in sé, astrattamente considerato, un illecito, dal momento che egli ha sempre la facoltà di controllare, mediante gli organismi del sistema sanitario pubblico, l’effettivo stato di malattia del lavoratore.
Tuttavia, talvolta un diritto può essere esercitato in maniera del tutto irragionevole e con finalità meramente vessatorie. Si pensi, per fare un altro esempio, al datore di lavoro che perseguita il proprio dipendente sommergendolo di sanzioni disciplinari che, benché rientranti nell’astratto potere disciplinare del datore di lavoro, per la loro sistematicità e per la loro pretestuosità potrebbero configurarsi appunto come persecutorie e vessatorie. Anche in un caso come questo, dunque, il dipendente che abbia subito un danno potrà rivolgersi al Giudice del lavoro per ottenere il risarcimento.
[1] Cass. sent. n. 475, del 19.01.1999.

(Fonte: La Legge per tutti)

Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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