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Superlavoro e stress: niente risarcimento al dipendente stakanovista


Ordine Informa

Sicurezza sul lavoro e obbligo di prevenzione: il dipendente deve dimostrare gli straordinari, l’obbligo di raggiungimento di determinati obiettivi, le eventuali diffide del datore.

Il datore di lavoro non deve risarcire i danni da stress per il superlavoro di cui si è fatto carico il dipendente se manca la prova che sia l’azienda a imporgli una mole di compiti eccessiva. Se il dipendente è, per sua natura, stakanovista ed accentratore, ed è lui stesso a voler farsi carico di compiti e responsabilità altrui “per una sua esclusiva scelta di ordine morale” non può chiedere poi alcun indennizzo per il conseguente affanno e usura. È quanto emerge da una sentenza di questa mattina della Cassazione [1]. 

L’onere della prova ricade sul lavoratore

È il dipendente a doversi fare carico di dimostrare al giudice che il superlavoro gli è stato imposto dall’azienda: ordini di servizio, testimoni, email: qualsiasi prova è buona per convincere il giudice.

Stabilisce infatti la Corte che tutte le volte in cui il lavoratore lamenti una lesione alla salute, egli deve dimostrare:

– il danno,

– la nocività dell’ambiente di lavoro

– e che fra il danno e la nocività dell’ambiente di lavoro vi sia una stretta dipendenza di causa-effetto (i giuristi la chiamano “rapporto di causalità” o anche “nesso eziologico”).

Una volta che il dipendente abbia provato tali tre circostanze, spetta al datore dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per evitare il verificarsi del danno, in modo da escludere che possa essergli addebitabile l’inosservanza degli obblighi di sicurezza sul lavoro.

Il datore, infatti, è tenuto a garantire la “sicurezza sul lavoro”, intesa non solo con riferimento ai macchinari e agli impianti, ma anche come prevenzione per possibili danni alla salute derivanti dallo stress lavorativo e dal carico eccessivo di mansioni.

Se invece emerge che il datore non ha mai preteso straordinari oltre i limiti di legge, né il raggiungimento di determinati obiettivi al di fuori delle possibilità umane, o non è stata mai ricevuta alcuna diffida con cui si addita il dipendente come personalmente responsabile per le disfunzioni nel servizio assegnatogli, il datore di lavoratore è libero da ogni responsabilità conseguente all’eccessivo carico di lavoro.

Nel caso di specie, è emerso che la lavoratrice si era fatta carico di oneri che spettavano ad altri e di cui altri avevano la responsabilità ma per sua esclusiva scelta di ordine morale. Viene meno, quindi, per i giudici, il “nesso di causalità tra fatto e danno”, e per questo il datore di lavoro è stato ritenuto non responsabile per i danni lamentati dalla donna.

La sentenza

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 21 maggio – 2 settembre, n. 17438 

Presidente Macioce – Relatore Amendola

Svolgimento del processo

1.- Con sentenza dei 6 maggio 2008 la Corte di Appello di Lecce ha confermato la decisione del primo giudice nella parte in cui aveva rigettato la domanda di A.P., azionata nei confronti del datore di lavoro Consorzio di Bonifica U.L.F., volta ad ottenere il risarcimento dei danno biologico sofferto per l’eccessivo carico di lavoro ed il cumulo di mansioni, Invocando l’art. 2087 c.c..

In punto di fatto la Corte territoriale ha argomentato che non era risultato provato che la P. fosse stata obbligata al raggiungimento di determinati risultati produttivi, ragionevolmente incompatibili con lo svolgimento di una normale attività lavorativa; che la dirigenza del Consorzio non le aveva mai imposto lavoro straordinario oltre i limiti di legge né aveva mai preteso che fossero raggiunti determinati risultati, né aveva mai avvertito la dipendente che comunque si sarebbe resa responsabile di eventuali disfunzioni nel servizio assegnato, “così sostanzialmente liberando la P. da ogni responsabilità conseguente all’eccessivo carico di lavoro”; che in definitiva la stessa si era fatta “carico di oneri che spettavano ad altri e di cui altri avevano la responsabilità, ma per sua esclusiva scelta di ordine morale, che vale ad interrompere il nesso di causalità tra fatto causativo e danno”.

2.- Per la cassazione di tale sentenza la soccombente ha proposto ricorso affidato a due motivi. Ha resistito con controricorso il Consorzio, depositando altresì memoria ex art. 378 c.p.c..

Il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.

Motivi della decisione

3.- I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati:

con il primo si denuncia violazione dell’art. 2087 c.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia attinente “a) alla mancata adozione da parte dell’ente datoriale di tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore e b) alla insussistenza di un obbligo in capo al dipendente di raggiungere determinati risultati produttivi”;

con il secondo mezzo di impugnazione si denuncia violazione e falsa applicazione degli arti. 2087 e 1218 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa i punti decisivi della controversia in ordine: “a) assolvimento dell’onere probatorio da parte della dipendente b) alla sussistenza dei nesso causale tra danno e sovraccarico di lavoro c) alla mancata considerazione della richiesta di prova e della CTU medico legale”.

4.- I motivi, che per la loro reciproca connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

Per consolidata giurisprudenza di questa Corte dal dovere di prevenzione imposto al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c. – che non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva – non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile e innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere la responsabilità dei datore di lavoro ogni volta che un danno si sia comunque verificato, occorrendo invece che l’evento sia pur sempre riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati (ex plurlmls: Cass. n. 15082 del 2014; Cass, n. 10510 del 2004).

Quanto alla ripartizione degli oneri probatori in un’azione di responsabilità avente natura contrattuale incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro ed il nesso causale fra questi due elementi, gravando invece sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato le suddette circostanze, l’onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno, si che non possa essere a lui addebitabile l’inadempimento dell’obbligo di sicurezza previsto dalla norma (Cass. n. 3989 del 2015; Cass. n. 2038 del 2013; Cass. n. 3788 del 2009).

Nella specie la Corte territoriale ha mostrato di fare corretta applicazione di tali principi e, dopo avere ben premesso in diritto che “il datore di lavoro ha l’obbligo, ex art. 2087 c.c., di tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratore, indipendentemente dal consenso di questi all’adozione di misure che potrebbero pregiudicarla”, ha tuttavia ritenuto “in punto di fatto”, concordando con il giudice di prime cure, che non fosse provata una responsabilità datoriale per un obbligo imposto alla P.o di raggiungere “risultati produttivi ragionevolmente incompatibili con lo svolgimento di una normale attività lavorativa”, specificando altresì gli elementi della vicenda storica da cui si è tratto il convincimento di una assenza di colpa del Consorzio.

Rispetto a tale iter argomentativo condiviso da entrambi i giudici di merito le plurime doglianze di vizi di motivazione prospettati dall’istante attingono aspetti del giudizio, interni alla discrezionalità valutativa degli elementi di prova e all’apprezzamento dei fatti, riguardanti il libero convincimento del giudice e non i possibili difetti del suo percorso formativo rilevanti ai fini in oggetto. Pertanto esse si risolvono in un’istanza inammissibile di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e quindi nella richiesta di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (tra le tante: Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 6064 del 2008). Invero il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti dei proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze dei processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. n. 24679 del 2013; Cass. n. 27197 del 2011).

5.- Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

Il Collegio reputa sussistano giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese di lite.

[1] Cass. sent. n. 17438/15 del 2.09.2015.

(Fonte: La Legge per tutti) 


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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