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Mansioni superiori: come ottenere la promozione


Ordine Informa

Lavoratore dipendente adibito a mansioni superiori rispetto all’inquadramento contrattuale: quando la promozione è un diritto.
Per ottenere il diritto alla promozione automatica, non è sufficiente che il dipendente sia stato sporadicamente adibito a mansioni superiori rispetto al proprio inquadramento contrattuale, ma è necessaria una assegnazione reiterata e sistematica dal parte del datore di lavoro. È quanto chiarito dalla Cassazione con una recente sentenza [1].

Il codice civile [2] stabilisce che il dipendente ha diritto ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto. Se però l’azienda gli impone lo svolgimento di compiti relativi a una categoria contrattuale superiore, egli ha diritto alla promozione automatica, oltre all’aumento della paga. In tal caso, quindi, l’assegnazione alla mansione superiore diviene definitiva. Perché ciò avvenga, però, è necessario:

– che l’adibizione alla mansione superiore non sia avvenuta per scopi temporanei e contingenti, come la sostituzione del lavoratore assente (il quale abbia diritto alla conservazione del posto);

– sia comunque decorso un periodo di tempo minimo nello svolgimento delle mansioni superiori: periodo che viene fissato dai contratti collettivi nazionali, ma che, comunque, non può superare a tre mesi. In altre parole, dopo tre mesi di svolgimento di attività superiore, il dipendente ha diritto ad essere promosso.

Ogni patto contrario a tale norma è nullo.

Per stabilire se una mansione è superiore o meno a quelle di effettiva assunzione, bisogna tener conto delle mansioni di provenienza e di quelle di destinazione del lavoratore nonché della possibilità di utilizzare o perfezionare l’esperienza acquisita dal lavoratore nello svolgimento delle mansioni di destinazione.

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha precisato che non è sufficiente la semplice ripetizione delle assegnazioni, ma è necessario – se non un vero e proprio intento fraudolento del datore di lavoro – una iniziale programmazione della molteplicità degli incarichi e una predeterminazione utilitaristica di siffatto comportamento.

Così, per esempio, l’essere stato assegnato a mansioni superiori in due sole occasioni, tra le quali non vi sia stata alcuna contiguità ed ognuna di esse inferiore al termine previsto dal Ccnl, è insufficiente a ottenere il riconoscimento dell’inquadramento superiore. Specie se ciò avviene per la sostituzione di un collega assente con diritto alla conservazione del posto.

LA SENTENZA

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 15 aprile – 3 settembre 2015, n. 17511

Presidente Stile – Relatore Berrino

Svolgimento del processo

La presente controversia ha per oggetto la domanda di B.P. diretta alla declaratoria di illegittimità del demansionamento subito ad opera della società Poste Italiane s.p.a., al risarcimento del danno professionale, all’affermazione del diritto all’inquadramento nella categoria Q2 del 5/12/1997 ed alle conseguenti differenze retributive, nonché al risarcimento del danno da “mobbing”.

Sia il giudice del lavoro del Tribunale che la Corte d’appello di Reggio Calabria hanno respinto la domanda del lavoratore.

In particolare, la sentenza di rigetto del 25/6 – 27/7/2010 della Corte d’appello di Reggio Calabria si basa, in sintesi, sui seguenti rilievi: -La richiesta di danni per perdita di chances era coperta dal giudicato formatosi sulla rinunzia all’azione tesa all’inquadramento nella superiore categoria di “Quadro” di 2^ livello; la mancanza di contiguità dei periodi di adibizione a mansioni superiori per singole durate inferiori a quelle previste dalla contrattazione collettiva per il riconoscimento del superiore inquadramento ne escludeva la configurabilità e, comunque, in merito al secondo incarico era emerso che il titolare era assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, per cui era inapplicabile la norma di cui all’art. 2103 c.c., mentre era da considerare nuova la prospettazione difensiva che faceva leva sulla diversa circostanza per la quale il posto di responsabile dell’ufficio postale di Villa San Giovanni era rimasto vacante dopo la revoca del 9/9/2001; l’esclusione del diritto all’inquadramento superiore e l’insussistenza delle ipotesi di demansionamento e di “mobbing” comportavano il rigetto delle domande tese al conseguimento delle differenze retributive e del risarcimento dei danni.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso B.P. con otto motivi. Resistono con controricorso la società Poste Italiane s.p.a. e l’Inail.

Le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., dell’art. 13 della legge n. 300/70, dei ceni 94/97 E.P.I. del 26/11/1994 e del 2001, oltre che dei principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c..

Ritiene il ricorrente che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’appello, la valutazione unificata dei periodi di adibizione frazionata alle superiori mansioni di “Quadro” era pienamente utilizzabile nella fattispecie, atteso che egli era stato adibito a tali mansioni una prima volta per 170 giorni, periodo, questo, terminato nel dicembre del 1997, e per una seconda volta per una durata di 174 giorni a decorrere dal 21/10/2000. Inoltre, la Corte non aveva considerato il comportamento della datrice di lavoro, non improntato a correttezza e buona fede, in quanto i suddetti periodi di adibizione a mansioni superiori si erano conclusi, rispettivamente, dieci e sei giorni prima dei sei mesi indicati dalla contrattazione collettiva per il riconoscimento del diritto alla rivendicazione del superiore inquadramento. Ne conseguiva che egli aveva maturato il diritto al superiore inquadramento avendo svolto di fatto le mansioni di “quadro di 2^ livello” per un periodo complessivo superiore a quello di sei mesi richiesto dall’art. 6 della legge n. 190 del 1985. Invece, la datrice di lavoro lo aveva illegittimamente escluso dalla selezione per il passaggio all’area quadri nel 1996 e dal dicembre del 1997 lo aveva, per due volte, dequalificato e riassegnato a mansioni inferiori alle ultime eseguite per sopperire vuoti di organico e di funzionari qualificati. Quanto alla questione del diritto alla conservazione del posto di lavoro, che per l’ufficio di (OMISSIS) la Corte territoriale aveva riconosciuto in favore di C.G. , il ricorrente fa osservare che quest’ultimo, benché vincitore di concorso interno, non vi aveva mai prestato servizio per impedimenti legati all’attività sindacale, tanto che a quell’ufficio erano stati assegnati nel tempo diversi direttori, egli compreso, per cui era da escludere che quell’incarico fosse collegato all’esigenza di sostituire un lavoratore assente per una delle ipotesi che davano diritto alla conservazione del posto di lavoro (periodo di riposo, servizio militare, infortunio, malattia, gravidanza, puerperio). Tra l’altro, secondo la difesa del B. , l’intento fraudolento della datrice di lavoro era emerso dal tentativo di quest’ultima di spostare in avanti la data di conferimento dell’incarico dal 21/10/2000, data in cui il ricorrente aveva assunto effettivamente le funzioni di direttore, all’1/12/2000, data in cui le stesse gli erano state attribuite ufficialmente, salvo, poi, revocargliele in seguito senza motivazione. Al riguardo si contesta che tale circostanza potesse configurare, come affermato dai giudici d’appello, una nuova prospettazione difensiva diversa da quella precedentemente formulata con riferimento alla sistematicità delle adibizioni temporanee ad incarichi superiori sin dal 1997.

2. Col secondo motivo, dedotto per violazione dell’art. 2103 c.c. e per vizio di motivazione, il ricorrente lamenta la mancata considerazione, da parte dei giudici d’appello, del comportamento della datrice di lavoro che solo sei giorni prima della maturazione del diritto alla promozione gli revocò l’assegnazione alle superiori mansioni e che in maniera altrettanto fraudolenta spostò in avanti all’1/12/200 la data del conferimento del secondo incarico.

Per ragioni di connessione i primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente. Tali motivi sono infondati.

Anzitutto, va rilevato che il ricorrente non investe in maniera specifica l’autonoma “ratio decidendi” incentrata sul rilievo che la richiesta di danni per perdita di chances era coperta dal giudicato formatosi sulla rinunzia, manifestata nel novembre del 2000, all’azione tesa all’inquadramento nella superiore categoria di “Quadro” di 2^ livello, per cui rimaneva preclusa l’esame di ogni pretesa di inquadramento che si fondava sui fatti storici verificatisi fino a quella data. Quanto alla contestata sussistenza della novità della prospettazione giuridica difensiva sopra richiamata nella parte finale del primo motivo, considerata come tale inammissibile dalla Corte territoriale, il ricorrente non indica e non dimostra, in violazione del principio di autosufficienza, in quale atto del giudizio di primo grado ed in quale momento processuale egli ebbe a sviluppare la questione considerata nuova dai giudici d’appello.

In ogni caso, la Corte ha esaminato adeguatamente il merito della controversia spiegando, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, che la valutazione unitaria dei periodi di adibizione frazionata agli incarichi superiori, che secondo il ricorrente denotava l’intento fraudolento della parte datoriale teso all’interruzione ripetuta degli stessi incarichi ai fine di scongiurare il realizzarsi del meccanismo dell’acquisizione del diritto alla promozione, non era utilizzabile nella fattispecie, in quanto non ricorreva la stretta contiguità dei due periodi di adibizione ad incarichi superiori, collocatisi a circa tre anni di distanza l’uno dall’altro ed afferenti a posti diversi tra loro. Inoltre, la Corte ha precisato che, trattandosi di adibizione per periodi inferiori al semestre non sorgeva il diritto, previsto dalla contrattazione collettiva, al superiore inquadramento rivendicato, per cui non poteva essere lamentato un demansionamento in relazione ad una qualifica non ancora acquisita; né poteva essere lamentato un demansionamento per mortificazione della professionalità raggiunta per effetto della temporanea adibizione alle mansioni superiori, poiché un tale tipo di tutela era configurabile nel solo ambito della qualifica di appartenenza. Nel contempo, si è affermato in sentenza che colui il quale era stato sostituito in occasione del conferimento del secondo incarico al B. , vale a dire il dipendente C. , era all’epoca assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro per motivi sindacali, per cui era inapplicabile la disposizione di cui all’art. 2103 c.c..

Orbene, come si è già statuito (Cass. sez. lav. n. 3529 del 10/4/1999) “l’ipotesi di sostituzione di altro lavoratore con diritto alla conservazione del posto di lavoro, della quale, a norma dell’art. 2103 cod. civ., non può tenersi conto ai fini del compimento del periodo di svolgimento di mansioni superiori necessario per l’acquisizione del diritto alla promozione automatica, si verifica in tutti i casi in cui sia configurabile una sospensione legale o convenzionale del rapporto del lavoratore sostituito, perciò anche nel caso in cui il sostituito sia assente per l’espletamento di attività sindacale, in forza di permessi retribuiti previsti dalla contrattazione collettiva, a nulla rilevando la frequenza, contiguità e/o continuità dei suddetti permessi” (in senso conf. Cass. sez. lav. n. 12793 del 2/9/2003).

Si è, altresì, statuito (Cass. sez. lav. n. 17870 dell’11/8/2014) che “per la sussistenza della frequenza e sistematicità di reiterate assegnazioni di un lavoratore allo svolgimento di mansioni superiori, il cui cumulo sia utile all’acquisizione del diritto alla promozione automatica in forza dell’art. 2103 cod. civ., non è sufficiente la mera ripetizione delle assegnazioni, essendo invece necessario – se non un vero e proprio intento fraudolento del datore di lavoro – una programmazione iniziale della molteplicità degli incarichi ed una predeterminazione utilitaristica di siffatto comportamento. (Nella specie, la S.C. ha escluso che l’adibizione di un dipendente postale a mansioni diverse, sebbene protratta e reiterata, ma con attribuzione di reggenza di un ufficio per nove giorni e dopo tre anni di alternanza in detta posizione di altri dipendenti aventi qualifica di quadro, potesse dare luogo alla promozione automatica). (conf. a Cass. sez. lav. n. 11997 del 25/5/2009).

3. Col terzo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 1218, 2049, 2043, 2059, 2697 e 2087 cod. civ., degli artt. 2, 32 e 41 della Costituzione, nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Il ricorrente lamenta che la Corte territoriale non ha valutato il quadro probatorio ai fini della verifica della denunziata illegittimità della condotta datoriale nella determinazione dei danni da demansionamento e dequalificazione professionale, con particolare riferimento alla revoca di entrambi gli incarichi per l’espletamento di mansioni superiori.

Lamenta, altresì, il ricorrente che erroneamente la Corte d’appello ha ricollegato la richiesta di risarcimento dei danni, adeguatamente allegati sulla base della dedotta responsabilità contrattuale ed aquiliana della datrice di lavoro, al denunziato “mobbing”, mentre gli stessi erano stati chiesti a diverso titolo (danno biologico, danno morale, danno esistenziale, danno alla professionalità, alla dignità ed all’immagine professionale e sociale, alla vita di relazione, alla perdita di chances lavorative) per il demansionamento e la dequalificazione subiti. Tuttavia, la Corte aveva trascurato di esaminare la documentazione medica prodotta a tal riguardo oltre che l’esito della prova testimoniale. Inoltre, secondo il B. , la Corte territoriale non aveva considerato che la prova liberatoria sulla natura non persecutoria delle ripetute adibizioni temporanee ad incarichi superiori per tempi che non consentivano il conseguimento del superiore inquadramento ricadeva sulla datrice di lavoro, la quale avrebbe dovuto dimostrare di aver esattamente adempiuto all’obbligazione di impegnare il lavoratore in una prestazione rispondente alle mansioni contrattuali.

4. Attraverso il quarto motivo di censura il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2043 c.c., degli artt. 2, 32 e 41 della Costituzione relativamente alla fattispecie configurabile anche come mobbing, del vizio di motivazione di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., dell’errata considerazione della violazione, da parte del datore di lavoro, degli artt. 2087, 1175, 1375 e 2049 c.c. in relazione agli artt. 2043 c.c. e 2, 3, 32 41, comma 2^, della Costituzione, oltre che della violazione e falsa applicazione degli artt. 18 del d.lgs. n. 626/94 e 9 dello Statuto dei lavoratori in relazione agli artt. 32 della Costituzione e 2087 c.c., delle norme sul diritto al risarcimento del danno biologico di natura psichica per illegittima condotta datoriale.

In concreto, il ricorrente imputa alla Corte d’appello di non aver ben valutato il materiale istruttorio documentale che dimostrava, a suo dire, la lamentata sussistenza del segnalato fenomeno di mobbing in suo danno attraverso le condotte datoriali puntualmente segnalate in giudizio, rappresentanti, sia singolarmente che nel loro insieme, la fonte dei danni dei quali era stato chiesto fondatamente il ristoro a tale titolo.

Il terzo ed il quarto motivo, che possono esaminarsi congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.

Anzitutto, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la Corte d’appello ha dimostrato di aver congruamente valutato il materiale probatorio sottoposto al suo esame nel pervenire al convincimento, sottratto a rilievi di legittimità in quanto adeguatamente apprezzato ed esente da vizi di ordine logico-giuridico, sulla insussistenza delle lamentate ipotesi di mobbing, demansionamento e dequalificazione professionale.

Ha spiegato, infatti, la Corte di merito che l’asserzione dell’intento fraudolento non era suffragata dalle prove testimoniali e che la valutazione espressa dalla datrice di lavoro ai fini della decisione di non confermare l’incarico non appariva irragionevole o arbitraria; inoltre, il lavoratore non aveva fornito la prova della sussistenza di una condotta datoriale vessatoria nei suoi confronti, per cui l’esclusione del diritto all’inquadramento superiore e l’insussistenza delle ipotesi di demansionamento e di “mobbing” comportavano il rigetto delle domande tese al conseguimento delle differenze retributive e del risarcimento dei danni; infine, la causa era stata ampiamente istruita e non necessitava di ulteriori accertamenti.

Orbene, non va dimenticato (Cass. sez. lav. N. 19785 del 17/9/2010) che “in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio – dall’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertarle) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 cod. civ. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale”.

Si è, altresì, precisato (Cass. sez. lav. n. 26666 del 6/12/2005) che “il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente del danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita – lesione che, per l’appunto, si profila idonea a determinare una dequalificazione del dipendente stesso – è tenuto ad indicare in maniera specifica il tipo di danno che assume di aver subito ed a fornire la prova dei pregiudizi da tale tipo di danno in concreto scaturiti e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una sua valutazione, anche eventualmente equitativa. Tale prova può essere data, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ., anche attraverso l’allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, sicché, a tal fine, possono essere valutate nel caso di dedotto danno da demansionamento, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione. Rimane, naturalmente, affidato al giudice di merito – le cui valutazioni, se corrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità – il compito di verificare, di volta in volta, se, in concreto, il suddetto danno sussista, individuandone la specie e determinandone l’ammontare, anche, se del caso, con liquidazione fondata sull’equità”.

5. Col quinto motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. in relazione ai principi in materia di valutazione e determinazione dei danni, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1225, 1227, 2043, 2056, 2057 e 2059 c.c., nonché il vizio di motivazione di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. sulla richiesta di danni da perdita di chances e l’omessa liquidazione dei danni.

In pratica, il ricorrente contesta la parte della decisione in cui si è ritenuto che l’esclusione della configurabilità del diritto al superiore inquadramento e del lamentato demansionamento non consentiva la liquidazione dei danni consequenziali e sostiene, invece, che ricorreva il presupposto del denunziato fatto illecito della controparte atto a giustificare l’accoglimento della domanda risarcitoria come formulata sin dal primo grado.

6. Attraverso il sesto motivo, proposto per violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 1226, 2056 c.c. e per vizio di motivazione, il ricorrente si duole dell’omessa motivazione in merito alla richiesta di riconoscimento e di liquidazione del danno esistenziale, inteso come peggioramento oggettivo delle condizioni dell’esistenza in conseguenza del denunziato mobbing.

7. Col settimo motivo è denunziata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 32 della Costituzione e degli artt. 2059, 2043, 1226 e 2056 c.c. nonché l’errata ed illegittima valutazione sulla rilevabilità e liquidazione del danno morale nonostante la lamentata inattività lavorativa e personale per effetto dell’illecito datoriale sopra evidenziato.

8. Con l’ottavo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 c.c., 2697 c.c. e 24 Cost., nonché il vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. lamenta il fatto che la Corte d’appello non ha indagato in merito al denunziato intento persecutorio posto in essere dalla controparte ed alla sussistenza del nesso causale tra tale condotta e l’evento dannoso patito rispetto al quale egli aveva invano fatto richiesta di espletamento di ulteriori mezzi istruttori rispetto al materiale probatorio raccolto che deponeva già in favore della sua domanda. Invero, secondo il ricorrente per quanto documentalmente provato nel corso del giudizio appariva evidente il nesso causale tra il demansionamento e la dequalificazione professionale e la lesione dell’integrità psico-fisica determinata dalla condotta della datrice di lavoro e dai suoi funzionari.

Anche questi ultimi quattro motivi possono essere trattati congiuntamente per ragione di connessione.

Gli stessi sono infondati in quanto si risolvono in una mera riproposizione di questioni di merito date per scontate ma che in realtà sono state già scrutinate ed adeguatamente apprezzate dai giudici d’appello con motivazione che, in quanto immune da vizi di carattere logico-giuridico per le ragioni sopra espresse, sfugge ai rilievi di legittimità. Oltretutto, il ricorrente non spiega in che modo specifico la Corte di merito sarebbe incorsa nei denunziati vizi di violazione di legge e quale precisa regola di diritto avrebbe dovuto in concreto osservare per non incorrere negli asseriti errori interpretativi, limitandosi, in realtà, a fornire una interpretazione di parte delle norme richiamate in mera contrapposizione al ragionamento logico-giuridico sviluppato in sentenza, rivelatosi anche rispettoso degli orientamenti giurisprudenziali in materia di prova del danno da demansionamento, da dequalificazione professionale e da mobbing, cioè da comportamento datoriale persecutorio in danno del lavoratore.

Tra l’altro, non va dimenticato che “in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).

Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base. (Nella specie la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso in quanto che la ricorrente si era limitata a riproporre le proprie tesi sulla vantazione delle prove acquisite senza addurre argomentazioni idonee ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune o vizi logici determinanti)”.

(Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006; in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04).

Nella fattispecie, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha attentamente valutato con argomentazioni logiche e ben motivate in ordine ai riscontri eseguiti, immuni da vizi giuridici, l’ampio materiale istruttorie raccolto, per cui le doglianze appena riferite non ne scalfiscono la relativa “ratio decidendi”.

In definitiva il ricorso va rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza di ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nei confronti delle parti controricorrenti nella misura di Euro 3.500,00 per compensi professionali e di Euro 100,00 per esborsi ciascuna, oltre accessori di legge.

[1] Cass. sent. n. 17511/15 del 3.09.2015.

[2] Art. 2103 cod. civ.

(Fonte: La Legge per tutti) 


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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