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Licenziamento e repechage: la prova è del datore di lavoro


Ordine Informa

In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve provare sia le ragioni aziendali che hanno determinato il recesso sia l’impossibilità di repechage del lavoratore.
In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro e non al dipendente, la prova dell’impossibilità di repechage, cioè di “ripescaggio” del lavoratore con l’assegnazione di altre mansioni equivalenti o eventualmente inferiori.
È quanto affermato da una recente sentenza della Cassazione [1] secondo cui, dato che la legge prevede espressamente a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare il giustificato motivo oggettivo del licenziamento [2], deve ritenersi a carico di quest’ultimo anche l’onere di provare l’impossibilità di adempiere all’obbligo di repechage.
In altri termini, qualora il datore di lavoro licenzi i propri dipendenti per specifiche esigenze aziendali inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento (per esempio chiusura di un ufficio o reparto al quale i lavoratori erano addetti), deve dimostrare oltre all’effettività della ragione oggettiva del licenziamento, anche l’impossibilità di adibire i lavoratori ad altre mansioni nella stessa azienda riorganizzata.
Il licenziamento deve infatti costituire un provvedimento estremo, utilizzabile solo quando il lavoratore, non possa essere in alcun modo “ripescato” nel nuovo assetto aziendale risultante dalla chiusura di reparti, uffici, settori produttivi ecc.
Secondo i giudici, la prova del giustificato motivo oggettivo e dell’impossibilità di adempimento dell’obbligo di repechage vanno di pari passo e non è possibile scinderle. Non è quindi condivisibile l’orientamento giurisprudenziale, seppur consolidato [3], secondo il quale spetterebbe al datore di lavoro la prova del motivo oggettivo e al dipendente la prova della possibilità di essere adibito a mansioni diverse.
Il lavoratore è infatti estraneo all’organizzazione aziendale [4] e non sarebbe oggettivamente in grado di fornire la prova del ripescaggio in merito agli eventuali posti disponibili, alle mansioni assegnabili, alle competenze richieste ecc.
L’onere della prova della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe e quelle svolte in precedenza non può essere posto direttamente o indirettamente a carico del lavoratore, neppure al solo fine della indicazione di posti di lavoro assegnabili; grava interamente sul datore di lavoro la dimostrazione della impossibilità di utilizzare il dipendente in altro settore della stessa azienda.
La legge pone espressamente a carico del datore di lavoro “l’onere della prova della sussistenza del giustificato motivo di licenziamento”: si tratta del motivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, addotto dal datore di lavoro, essendo invece insindacabile la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica.
Secondo la Suprema Corte, nel motivo oggettivo, rientra il requisito dell’impossibilità di repechage, quale criterio di integrazione delle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, nella modulazione della loro diretta incidenza sulla posizione del singolo lavoratore licenziato, derogabile soltanto quando il motivo consista nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile.
Dunque, in sede di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il lavoratore deve allegare la fonte del proprio diritto (rapporto di lavoro) e l’inadempimento del datore di lavoro (illegittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo); il datore di lavoro, invece, è onerato della prova del fatto estintivo (legittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo nella ricorrenza dei suoi presupposti, tra i quali anche l’impossibilità di repechage).
L’onere probatorio a carico del datore dell’impossibilità di repechage risponde al principio di vicinanza della prova, in base al quale la prova deve essere fornita dalla parte che più facilmente può fornirla (alla quale appunto è più vicina).
Tale principio risponde all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore, in quanto si trova nella migliore disponibilità degli elementi per dimostrare le ragioni del proprio comportamento.
Dunque, l’onere della prova è a carico del datore di lavoro, per la maggiore vicinanza di allegazione e prova dell’impossibilità di repechage, non disponendo il lavoratore, al contrario del primo, della completezza di informazione sulle condizioni dell’impresa, tanto più in una condizione di crisi, in cui esse mutano continuamente a misura della sua evoluzione e degli interventi imprenditoriali per rimediarvi o comunque indirizzarne gli sbocchi.
In conclusione, la Cassazione pronuncia il seguente principio di diritto: “In materia di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datare di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente”.
LA SENTENZA
Corte di Cassazione
Sentenza del 22 marzo 2016, n. 5592
Con sentenza 13 febbraio 2013, la Corte d’appello di Trieste respingeva l’appello proposto da A.P. (dipendente da marzo 2006 di H. s.p.a. quale quadro A 3 ai sensi del CCNL per il settore chimico e con mansioni di direttore commerciale della divisione Geotecnica, a suo dire demansionato per il trasferimento nel marzo 2008 alla direzione della divisione Applicazioni Industriali e quindi licenziato per giustificato motivo oggettivo) avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva rigettato le domande di illegittimità del licenziamento intimatogli con lettera del 17 marzo 2009, di condanna della società datrice alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, compensando tra le parti le spese di giudizio.
Sulla base degli scrutinati dati di bilancio, dei licenziamenti operati nel periodo all’interno della divisione Applicazioni Industriali e dell’ammissione della società alla Cassa Integrazione Guadagni richiesta nell’ottobre 2009, la Corte territoriale riteneva provata l’effettiva ricorrenza del giustificato motivo oggettivo, sub specie di riorganizzazione aziendale con accorpamento della divisione diretta da P. in quella Geotecnica per l’andamento economico e finanziario negativo, pure in assenza di specifica allegazione di repechage del lavoratore; essa escludeva poi il dedotto demansionamento, per l’equipollenza dell’incarico direttivo in entrambe le divisioni (a seguito del suo spostamento dalla divisione Geotecnica a quella Applicazioni Industriali, per un suo rilancio, a seguito dell’acquisizione di nuove commesse), alle dirette dipendenze, sia prima che dopo, dell’amministratore delegato e del presidente della società datrice. Con atto notificato il 1° luglio 2013, A.P. ricorre per cassazione con cinque motivi, cui resiste H. s.p.a. con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 3 L. 604/1966 e vizio di motivazione illogica, insufficiente e contraddittoria, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 c.p.c., per mancato accertamento dell’effettiva cessazione, al di là del suo accorpamento ad altra, dell’attività della divisione Applicazioni Industriali e della soppressionedelle proprie mansioni, senza alcuna giustificazione di ciò, nonostante la specificità al riguardo delle doglianze in appello.
Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 3 L. 604/1966, 1175, 1375, 2697, 2729 c.c. e vizio di motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 c.p.c., per non ritenuto inadempimento dalla società datrice all’obbligo di repechage, pure con motivazione insufficiente e contraddittoria.
Con il terzo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 3 L. 604/1966, 1175, 1375, 2697, 2729 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per erronea ripartizione dell’onere della prova, non posto a carico, secondo più rigoroso indirizzo interpretativo di legittimità, del datore di lavoro, senza alcun coinvolgimento collaborativo del lavoratore, come invece per altro indirizzo di minor rigore.
Con il quarto, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 3 L. 604/1966, 1175, 1375 c.c. e vizio di motivazione illogica, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 c.p.c., per mancata esatta valutazione della disponibilità manifestata allo svolgimento di mansioni anche inferiori, con la lettera del 25 marzo 2009 in risposta aquella datoriale di licenziamento senza preavviso del 17 marzo 2009, nell’impossibilità di manifestare prima una tale disponibilità, essendo all’oscuro della determinazione della propria datrice, con la conseguente inapplicabilità al caso di specie del principio acriticamente recepito dalla Corte territoriale, riguardante tuttavia ipotesi diversa di previa conoscenza della situazione dai lavoratori (prima oggetto di demansionamento impugnato giudizialmente e quindi) licenziati.
Con il quinto, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 3 L. 604/1966, 1175, 1375 c.c. e vizio di motivazione contraddittoria, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 c.p.c., per omessa valutazione del proprio carico familiare nella valutazione della preferenza datoriale per la conservazione dell’incarico di direttore della divisione Geotecnica al dr. B. in proprio danno.
Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 3 L. 604/1966 e vizio di motivazione, per mancato accertamento dell’effettiva cessazione dell’attività della divisione Applicazioni Industriali e della soppressione delle mansioni del lavoratore, è inammissibile.
Sotto il profilo di violazione di legge, al di là della formale enunciazionedella sua rubrica, esso non integra gli appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).
Né qui rileva una questione di sindacabilità, sotto il profilo della falsa interpretazione di legge, del giudizio applicativo di una norma cd. “elastica” (quale indubbiamente la clausola generale del giustificato motivo obbiettivo ai sensi degli artt. 1 e 3 L. 604/1966), che indichi solo parametri generali e pertanto presupponga da parte del giudice un’attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico – sociale: in tal caso ben potendo il giudice di legittimità censurare la sussunzione di un determinato comportamento del lavoratore nell’ambito del giustificato motivo (piuttosto che della giusta causa di licenziamento), in relazione alla sua intrinseca lesività degli interessidel datore di lavoro (Cass. 18 gennaio 1999, n. 434; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10514).
E ciò per la sindacabilità, da parte della Corte di cassazione, dell’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095): con limitazione, alla luce dell’esperienza applicativa della Corte, almeno nella sua teorica enunciazione, quando il giudice del merito sia chiamato ad applicare concetti giuridici indeterminati, del controllo di legittimità alla verifica di ragionevolezza della sussunzione del fatto e quindi ad un sindacato su vizio di violazione di norma di diritto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., ben lontano da quello dell’art. 360, primo comma, n 5. c.p.c. (Cass. s.u. 18 novembre 2010, n. 23287).
Ed infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., ricorre o non ricorre a prescinderedalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata (Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348).
Sicché, il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 5 c.p.c., che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti.
Ciò che appunto si verifica nel caso di specie, in cui si controverte, non tanto (e per le ragioni dette) di esatta interpretazione di norme né di corretto esercizio del processo di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge denunciata (correttamente individuata nell’integrazione del giustificato motivo oggettivo dal processo di riorganizzazione aziendale comportante l’accorpamento della divisione già diretta da P. in quellaGeotecnica, per crisi economica e finanziaria), quanto piuttosto di accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento (effettiva soppressione delle mansioni del lavoratore): e pertanto sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cessazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 2 marzo 2011, n. 5095).
Parimenti inammissibile è il denunciato vizio di illogica, insufficiente e contraddittoria motivazione, non più deducibile per l’attuale testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (di denuncia “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”), applicabile ratione temporis per la pubblicazione della sentenza impugnata in data posteriore (13 febbraio 2013) al trentesimo giorno successivo a quella di entrata in vigore della legge 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83 (12 settembre2012), secondo la previsione dell’art. 54, terzo comma del decreto legge citato.
Esso ha, infatti, introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cessazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (nel senso che, qualora esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”; fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Sicché, detta riformulazione deve essere interpretata, alla luce dei canoniermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Ed è pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053).
Né l’omesso esame di elementi istruttori integra in sé il suddetto vizio, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498): con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a finiistruttori (Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).
Il secondo (violazione e falsa applicazione degli artt. 3 L. 604/1966, 1175, 1375, 2697, 2729 c.c. e vizio di motivazione, per non ritenuto inadempimento dalla società datrice all’obbligo di repechage) e il terzo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 3 L. 604/1966, 1175, 1375, 2697, 2729 c.c., per erronea ripartizione dell’onere della prova al riguardo) sono congiuntamente esaminabili per la loro stretta connessione.
Essi sono fondati.
Il collegio è ben consapevole di un consolidato indirizzo di questa Corte, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 (accanto ad uno di chiara affermazione dell’onere datoriale della prova dell’impossibilità di impiegare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito: Cass. 12 luglio 2012, n. 11775; 26 marzo 2010, n. 7381; Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 14 giugno 2005, n. 12769; Cass. 9 giugno 2004, n. 10916; Cass. 1 ottobre 1998, n. 9768; Cass. 26 ottobre 1993, n. 9369), secondo cui, se indubbiamente un tale onerecompeta al datore di lavoro, tuttavia esso conseguirebbe da un (diverso e propedeutico) onere, a carico dello stesso lavoratore che impugni il licenziamento, di allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro per la sua utile ricollocazione, in virtù di un preteso obbligo di collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage (Cass. 6 ottobre 2015, n. 19923; Cass. 3 marzo 2014, n. 4920; Cass. 8 novembre 2013 n. 25197; Cass. 19 ottobre 2012, n. 18025; Cass. 26 aprile 2012, n. 6501; Cass. 8 febbraio 2011 n. 3040; Cass. 18 marzo 2010, n. 6559; Cass. 22 ottobre 2009, n. 22417; Cass. 19 febbraio 2008, n. 4068; Cass. 9 agosto 2003, n. 12037; Cass. 12 giugno 2002, n. 8396; Cass. 3 ottobre 2000, n. 13134): in una sorta, per così dire, di cooperazione processuale.
Tuttavia, come chiaramente si evince dall’integrale lettura delle sentenze citate, un tale indirizzo imperniato su una netta (e inedita) divaricazione tra onere di allegazione (in capo al lavoratore) e di prova (in capo al datore di lavoro) è meramente tralaticio, fondandosi su una petizione di principio (secondo cui “il lavoratore, pur non avendo il relativo onere probatorio, che grava per intero sul datore di lavoro, ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di repechage”) assunta come postulato, in quanto affatto argomentata nel suo fondamento giuridico.
Per trovare una spiegazione, occorre risalire ad una lontana sentenza, che, premesso l’onere datoriale, in tema di licenziamento per giustificato motivo obiettivo secondo costante orientamento della medesima Corte, di provare l’impossibilità di una diversa utilizzazione, trattandosi di circostanza pur sempre ricollegabile alle generali “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, ha offerto la seguente giustificazione: “Pur sussistendo … siffatto carico probatorio sul datore di lavoro, resta peraltro pur sempre a carico del lavoratore, ricorrente in giudizio per ottenere l’annullamento del licenziamento, l’onere di dedurre ed allegare, in osservanza delle prescrizioni sulla forma della domanda dettate dall’art. 414 c.p.c. (secondo cui la domanda deve contenere, tra l’altro, “l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali (essa) si fonda”: n. 3 cit. art. 414), le specifiche circostanze e ragioni costituenti i presupposti di tale azione. E pertanto – con riferimento al caso che qui interessa – è da ricondurre a tale onere, del lavoratore ricorrente, il dedurre e l’allegare circostanze di fatto e ragioni di dirittocostituenti il fondamento della affermata illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo: e così la insussistenza di un giustificato motivo, ovvero l’inadeguatezza in tal senso del motivo addotto dal datore di lavoro, ed anche la possibilità, comunque, di una sua diversa utilizzazione nell’impresa con mansioni equivalenti … Sarà poi onere del convenuto datore di lavoro, in opposizione alle suddette deduzioni e allegazioni attinenti agli elementi essenziali dell’azione contro di lui proposta, fornire la prova ai sensi del citato art. 5 della legge n. 604/1966 (che in sostanza contiene una specificazione del principio generale di cui al secondo comma dell’art. 2697 c.c.) dei fatti impeditivi dell’azionato diritto ad ottenere l’annullamento del licenziamento: e fornire quindi la prova della sussistenza delle ragioni produttive e organizzative aziendali di cui al citato art. 3 della legge n. 604/1966 (ed in particolare, nel caso di specie, la prova della sostenuta riduzione dell’attività imprenditoriale per diminuzione degli appalti), nonché la prova che non v’era comunque possibilità di una diversa e adeguata utilizzazione del dipendente. Ma ove una siffatta possibilità di diversa utilizzazione (che costituisce elemento di fatto certamente collegato, ma pur sempre differenziato e distintorispetto alle vere e proprie ragioni di carattere organizzativo, produttivo e funzionale riferite alla attività aziendale dal citato art. 3) non sia stata neppure allegata dal ricorrente tra gli elementi posti a fondamento dell’azione e tra i presupposti della sua domanda, non v’è ragione logica per cui il convenuto debba chiedere di provare la insussistenza di una tale circostanza, in quanto appunto nemmeno prospettata dalla parte interessata a farla valere”(Cass. 23 ottobre 1998, n. 10559).
Appare evidente come i principi testualmente riportati (e che, si ribadisce, costituiscono la giustificazione del consolidato indirizzo qui confutato) non possano essere condivisi, e non solo perché già in precedenza smentiti, in particolare da due sentenze, secondo cui: “l’onere della prova della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe e quelle svolte in precedenza, pur dovendo essere mantenuto entro limiti di ragionevolezza sì che può considerarsi assolto anche mediante il ricorso a risultanze probatorie di natura presuntiva e indiziaria … non può tuttavia essere posto direttamente o indirettamente a carico del lavoratore, neppure al solo fine della indicazione di posti di lavoro assegnabili invero, pur dovendosi tener conto della specificità dei vari settori dell’impresa, la superfluità del lavoro del dipendente licenziato deve essere valutata entro l’ambito dell’intera azienda e non già con riferimento al singolo posto ricoperto, nel senso che grava interamente sul datore di lavoro la dimostrazione della impossibilità di utilizzare il dipendente in altro settore della stessa azienda” (Cass. 7 luglio 1992 n. 8254); “La prova … dell’impossibilità di un diverso impiego della lavoratrice licenziata nell’azienda, senza dequalificazione, gravava per intero anch’essa sul datore di lavoro e non poteva quindi trasferirsi neppure in parte sulla lavoratrice (pur se al solo fine dell’indicazione di posti di lavoro a lei assegnabili). Non si vede in realtà come sia esigibile un’indicazione del genere da parte del lavoratore licenziato, che è estraneo all’organizzazione aziendale, e l’indirizzo in tal senso di questa Corte … può dirsi costante” (Cass. 18 aprile 1991, n. 4164).
Con la loro enunciazione si ritiene, in buona sostanza, che la possibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse (cd. repechage) sia elemento costitutivo della domanda di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e perciò nell’onere di allegazione del lavoratore medesimo, cuiil datore di lavoro opponga il fatto impeditivo “dell’azionato diritto ad ottenere l’annullamento del licenziamento”: in esso inclusa la negazione della “possibilità di una diversa e adeguata utilizzazione del dipendente”, purché “allegata dal ricorrente tra gli elementi posti a fondamento dell’azione e tra i presupposti della sua domanda”.
Ma in realtà non è così, perché, se è indubbio che nel giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo la causa petendi sia data dall’inesistenza dei fatti giustificativi del potere spettante al datore di lavoro, gravando su quest’ultimo l’onere di provare la concreta sussistenza delle ragioni inerenti all’attività produttiva e l’impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, è pur vero che l’indicazione (pur “possibile” da parte del “lavoratore” che si sia fatto “parte diligente”) di un posto di lavoro alternativo a lui assegnabile, o l’allegazione di circostanze idonee a comprovare l’insussistenza del motivo oggettivo di licenziamento, comporti l’inversione dell’onere della prova (Cass. 5 marzo 2015, n. 4460, con espresso richiamo sul punto di Cass. 7 luglio1992, n. 8254, che in proposito, giova ribadire, ha testualmente affermato che: “l’onere della prova della impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di mansioni analoghe e quelle svolte in precedenza … non può tuttavia essere posto direttamente o indirettamente a carico del lavoratore, neppure al solo fine della indicazione di posti di lavoro assegnabili”).
Ora, l’art. 5 L. 604/1966 è assolutamente chiaro nel porre a carico del datore di lavoro “l’onere della prova della sussistenza … del giustificato motivo di licenziamento”: ed in tale senso esso è interpretato in ordine al controllo giudiziale dell’effettiva sussistenza del motivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, addotto dal datore di lavoro, essendo invece insindacabile la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. (Cass. 14 maggio 2012, n. 7474; Cass. 11 luglio 2011, n. 15157).
Ed in esso rientra il requisito dell’impossibilità di repechage, quale criterio di integrazione delle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, nella modulazione della loro diretta incidenza sullaposizione del singolo lavoratore licenziato, derogabile soltanto quando il motivo consista nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile (dovendo in tal caso il datore di lavoro pur sempre improntare l’individuazione del soggetto da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell’art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e quindi anche il recesso di una di esse: Cass. 28 marzo 2011, n. 7046) ovvero in caso di licenziamento del dirigente d’azienda per esigenze di ristrutturazione aziendali (per incompatibilità del repechage con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro: Cass. 11 febbraio 2013, n. 3175).
Ed allora, la domanda del lavoratore è correttamente individuata, a norma dell’art. 414 n. 3 e n. 4 c.p.c., da un petitum di impugnazione del licenziamento per illegittimità e da una causa petendi di inesistenza del giustificato motivo così come intimato dal datore di lavoro, cui incombe pertanto la prova, secondo la previsione dell’art. 5 L. 604/1966, della sua ricorrenza in tutti gli elementi costitutivi, in essi compresa l’impossibilità di repechage: senza alcun onere sostitutivo del lavoratore alla sua controparte datrice sul piano dell’allegazione, per farne conseguire un onere probatorio (offrendogli, per così dire, l’affermazione del fatto da provare). Si tratterebbe di una divaricazione davvero singolare, in quanto inedita sul piano processuale, nel quale l’onere della prova è modulato in coerente corrispondenza con quello dell’allegazione, come inequivocabilmente stabilito dall’indicazione dei requisiti della domanda (“esposizione dei fatti … sui quali si fonda la domanda” e “indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi”: art. 414 n. 4 e n. 5 c.p.c., con previsione del tutto analoga a quella dell’art. 163, terzo comma, n. 4 e n. 5 c.p.c.), in funzione di una corretta ripartizione dell’onere probatorio secondo la previsione dell’art. 2697 c.c., a norma del quale ciascuna delle parti deve provare i fatti a fondamento delle proprie domande o eccezioni, espressione del rispettivo onere di allegazione, nell’evidente indisgiungibilità dei due piani (Cass. s.u. 16 febbraio 2016, n. 2951: in riferimento ad allegazione e prova della titolarità della posizione giuridica vantata in giudizio; Cass. 15 ottobre 2014, n. 21847 e Cass. 19 agosto 2009, n. 18399: in riferimento all’onere di provare le proprie allegazioni soltanto ove non specificamente contestate da controparte).
La patrocinata ricostruzione sistematica della ripartizione dei rispettivi oneri di allegazione e di prova tra le parti nella fattispecie in esame trova piena conferma anche ove ricondotta ai principi in tema di responsabilità da inadempimento, di cui la normativa di carattere generale in materia di licenziamenti (come principalmente stabilita dalla legge n. 604/1966 e dall’art. 18 della legge n. 300/1970) costituisce specificazione, essendo applicabile agli effetti del licenziamento, qualora non operi detta normativa, la disciplina civilistica dell’inadempimento (Cass. 22 luglio 2004, n. 13731). Sicché, in base a tali principi, il creditore attore (lavoratore impugnante il licenziamento come illegittimo) è onerato della (allegazione e) prova della fonte negoziale (o legale) del proprio diritto (rapporto di lavoro a tempo indeterminato) e dell’allegazione dell’inadempimento della controparte (illegittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo), mentre il debitore convenuto (datore di lavoro) è onerato della prova del fatto estintivo (legittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo nella ricorrenza dei suoi presupposti, tra i quali, come detto, anche l’impossibilità di repechage): in coerenza con i principi di persistenza del diritto (art. 2697 c.c.) e diriferibilità o vicinanza della prova (Cass. s.u. 30 ottobre 2001, n. 13533). E tale principio di riferibilità o vicinanza della prova, conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore, in quanto nella migliore disponibilità degli elementi per dimostrare le ragioni del proprio comportamento, ormai di consolidata applicazione (Cass. 29 gennaio 2016, n. 1665; Cass. 14 gennaio 2013, n. 2016; Cass. 2 settembre 2013, n. 20110; Cass. 17 aprile 2012, n. 6008; Cass. 6 giugno 2012, n. 9099), trova coerente riscontro anche nel caso di specie: per la maggiore vicinanza di allegazione e prova dell’impossibilità di repechage al datore di lavoro, non disponendo il lavoratore, al contrario del primo, della completezza di informazione delle condizioni dell’impresa, tanto più in una condizione di crisi, in cui esse mutano continuamente a misura della sua evoluzione e degli interventi imprenditoriali per rimediarvi o comunque indirizzarne gli sbocchi. Ciò che, d’altro canto, da tempo è stato ben presente a questa Corte, avendo in particolare essa osservato: “non si vede in realtà come sia esigibile un’indicazione del genere” (ossia dei posti assegnabili) “da parte del lavoratore licenziato,che è estraneo all’organizzazione aziendale” (Cass. 18 aprile 1991, n. 4164, che ha anche sottolineato la costanza di un indirizzo in tal senso della Corte). In via conclusiva, si comprende allora come la tralaticia affermazione di una sorta di cooperazione processuale del lavoratore, e più in generale di ogni parte, sul piano dell’allegazione in favore della controparte sia priva di alcun fondamento normativo; soltanto sul piano sostanziale un tale obbligo di cooperazione è, infatti, previsto tra le parti, siccome tenute ad un comportamento di collaborazione, conforme ai principi di correttezza e di buona fede, a norma degli artt. 1175, 1206 e 1375 c.c., quale obbligazione collaterale alle principali (Cass. 6 febbraio 2008, n. 2800; Cass. 16 gennaio 1997, n. 387).
Dalle superiori argomentazioni, assorbenti l’esame del quarto (violazione e falsa applicazione degli artt. 3 L. 604/1966, 1175, 1375 c.c. e motivazione illogica, per mancata esatta valutazione della disponibilità manifestata allo svolgimento di mansioni anche inferiori) e del quinto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 3 L. 604/1966, 1175, 1375 c.c. e motivazione contraddittoria, per omessa valutazione del proprio carico familiare nella valutazione della preferenza datoriale per la conservazione dell’incarico di direttore della divisione Geotecnica al dr. B.), discende coerente raccoglimento dei due motivi congiuntamente scrutinati, con la cassazione della sentenza impugnata in relazione ad essi e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Trieste in diversa composizione, sulla base del seguente principio di diritto:
“In materia di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datare di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente”.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo; accoglie il secondo e il terzo; assorbiti gli altri; cassa la sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio, alla Corte d’appello di Trieste in diversa composizione.
[1] Cass. sent. n. 5592 del 22.3.2016.
[2] Art. 5, L. 604/1966.
[3] Sentenze di orientamento opposto: Cass. n. 11775/2012; n. 7381/2010; n. 21579/2008; n. 12769/2005; n. 10916/2004.
[4] Cass. 18 aprile 1991, n. 4164.
(Autore: Maria Monteleone)
(Fonte: La Legge per tutti)


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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