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La notizia sul processo va aggiornata con l’assoluzione


Ordine Informa

È vero, la stampa si alimenta di cronaca nera, denunce e notizie di indagini: ma è necessario informare il pubblico anche del successivo esito delle indagini o del processo se tutto si conclude con l’assoluzione dell’indagato/imputato. Insomma, chi ha deciso di pubblicare su internet la notizia di un’indagine penale è poi obbligato a seguirne tutto lo sviluppo e ad aggiornarla con l’eventuale esito positivo per il soggetto passivo. È quanto chiarito dal Tribunale di Genova con una recente sentenza [1].
Qui non è in gioco il diritto all’oblio che impone, invece, anche nel caso di condanne, di cancellare le notizie online dopo diverso tempo perché non più di interesse pubblico. Qui si tratta, invece, di ristabilire la verità dei fatti: tenere online la notizia dell’avvio di un’indagine, della notifica di un rinvio a giudizio, di un processo o anche di una condanna in primo grado, senza poi aggiornarla con gli sviluppi dell’inchiesta/causa più favorevoli al presunto reo costituisce un illecito che viola il codice penale (costituendo reato di «diffamazione a mezzo stampa») e il diritto costituzionale all’identità della persona oggetto dello scritto giornalistico. Sicché quest’ultimo ha la facoltà di chiedere, da subito, il completamento dell’articolo con l’esito positivo del processo, salvo poi, trascorso un ragionevole lasso di tempo, pretenderne anche la totale cancellazione o la deindicizzazione (ossia l’eliminazione dai risultati dei motori di ricerca come Google) perché non più attuale.
Se il titolare del sito, del blog o del giornale non ottempera alla richiesta di aggiornamento della notizia con l’esito positivo dell’inchiesta o della causa penale commette il reato di diffamazione a mezzo stampa [2] per il quale si rischia la reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro. L’illecito penale sussiste – secondo la sentenza in commento – in quanto non c’è dubbio che l’omesso aggiornamento mediante inserimento dell’esito del procedimento penale costituisce un comportamento diffamatorio. Del resto la qualifica di un soggetto come indagato, o peggio ancora come imputato, è certamente idonea a qualificare negativamente l’immagine, il decoro e la reputazione di una persona, soprattutto quando si tratta di soggetto noto al pubblico. La reputazione, infatti, consiste nell’opinione o stima di cui l’individuo gode in seno alla società in ragione delle proprie qualità e capacità, ed è indubbio che fra queste l’onestà di vita e di costumi assuma peso decisivo; la notizia che taluno è soggetto ad indagine penale induce un dato oggettivo avvertito negativamente da chiunque e credibilmente scalfisce l’originario giudizio estimatorio, essendo assolutamente impossibile al medio lettore di percepire immediatamente l’ipotetica falsità o infondatezza dell’accusa.
Pertanto, la notizia – vera al momento dell’inserimento – deve essere aggiornata o eliminata perché non più reale. Difatti, «la verità della notizia – si legge nel provvedimento in commento – deve essere riferita agli sviluppi di indagine quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo, mentre la verifica di fondatezza della notizia, effettuata all’epoca dell’acquisizione di essa, deve essere aggiornata nel momento diffusivo, in ragione del naturale e non affatto prevedibile percorso processuale della vicenda».
LA SENTENZA
Tribunale di Genova – Sezione I penale – Sentenza 20 giugno 2016 n. 3582
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI GENOVA
SEZIONE PRIMA
IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA
Dr. RICCARDO CRUCIOLI
in data 6/06/2016 ha pronunciato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo, la seguente
SENTENZA
nei confronti di Ma.An., nata (…), residente in Via (…) (GE), difesa di fiducia dall’avv. Ma.An. del foro di Genova domicilio ivi eletto, e dall’avv. Ri.La. del foro di Genova.
Delitto di cui all’art. 595 comma 3 del c.p., perché, pubblicando sul sito internet della As.Na. con sede in Genova (e quindi comunicando con più persone), sito di cui la medesima è Presidente e responsabile, la notizia che Ca.Ri. e Gi.Ur. – rispettivamente Presidente e Vicepresidente del Codacons – erano “imputati” nella vicenda “Ro.” e che, in particolare, erano stati rinviati a giudizio dalla Procura di Campobasso in quanto “coinvolti nella maxi inchiesta sugli appalti sospetti di Ro.” e che il Ri. era altresì “imputato per tentativo di concussione” innanzi al Tribunale di Sulmona, offendeva la reputazione dei predetti; segnatamente non provvedeva ad
aggiornare la notizia precisando: che il Tribunale di Campobasso aveva, in data 3.12.2009, emesso sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. nei confronti del Ri. e dell’Ur., che il Tribunale di Sulmona aveva emesso sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. nei confronti del Ri. in data 23.11.2007 e che il Tribunale di Roma (dichiarato competente dal Tribunale di Sulmona in relazione ad alcuni fatti) aveva pronunciato con riferimento al Ri. decreto di archiviazione in data 4.2.2009.
Fatto aggravato in quanto l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato ed è stata .recata con mezzo di pubblicità (sito internet).
PARTI CIVILI:
1) UR.GI., nato (…) – costituitasi il 9/10/15 – rappresentato e difeso dall’avv. Vi.Ri. del foro di Roma
2) RI.CA., nato (…) – costituitasi il 9/10/15 – rappresentata e difesa dall’avv. Gi.Le. del foro di Roma
3) CODACONS Coordinamento delle Associazioni per la Difesa dell’Ambiente e dei Diritti degli Utenti e dei Consumatori – Onlus, in persona del legale rappresentante pro – tempore Avv. Gi.Ur. nato (…) – con sede in Roma V.le (…) – costituitasi il 9/10/15 – rappresentata e difesa dall’avv. Gi.Le. del foro di Roma.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
Con decreto regolarmente notificato, MA.AN. veniva citata in giudizio per rispondere del reato indicato in epigrafe.
Il 19.10.2015 all’udienza fissata per il dibattimento era assente la prevenuta; si costituivano parti civili le persone offese dal reato, Co., Ca.Ri. e Gi.Ur. Dopo la risoluzione di alcune questioni preliminari, erano ammesse le prove documentali ed orali richieste.
All’udienza del 17.12.2015 i difensori dichiaravano di aderire all’astensione indetta dalle camere penali.
All’udienza del 4.4.2016 era prodotta ulteriore documentazione ed erano escussi i testi Ur. e Ri. (parti civili) oltre a Tr., Ba., Pi. e Pe. Le parti rinunciavano alla escussione degli ulteriori testi, comunque palesemente sovrabbondanti al fine di decidere.
Nel corso del dibattimento venivano emessi, inaudita altera parte, due provvedimenti di sequestro mediante oscuramento aventi ad oggetto due distinte pagine del sito internet della Ma., la quale non ha mai volontariamente eliminato le notizie di cui infra ma si è limitata – dopo alcune udienze – ad inserire in una pagina (difficilmente raggiungibile) i provvedimenti di non luogo a procedere e di archiviazione, senza peraltro dare loro il medesimo risalto conferito alla notizia della richiesta di rinvio a giudizio. All’udienza odierna l’imputatasi sottoponeva ad esame. Dopo una discussione assai ampia, soprattutto da parte delle difese delle parti civili, il processo veniva deciso. Nonostante la notevole massa di prove assunte in dibattimento (per volontà della parte civile) i fatti per i quali si procede sono davvero semplici e, oltretutto, pacificamente ammessi dalla stessa imputata. È infatti ampiamente provato che:
– la prevenuta, presidente dell’associazione “(…)”, gestisce un sito internet (…);
– sono intercorsi (ed intercorrono) aspri dissidi tra la Ma. ed i rappresentanti del Co., sia a livello nazionale che locale (e tra essi tale Fu.Tr., avverso il quale la Ma. ha presentato querela proprio per diffamazione, vertenza chiusa con sentenza di assoluzione);
– gran parte del contenuto del sito internet gestito dalla Ma. è volto alla critica dell’operato del Co. ed, in particolare, di Ri. e di Ur.;
– nella propria foga accusatoria (non importa davvero se fondata o meno), Ma. inseriva e commentava alcuni provvedimenti giudiziari con i quali le persone offese venivano pesantemente coinvolte in vicende penali di notevole gravità; in particolare la prevenuta
conferiva particolare risalto (“vertici codacons a giudizio”) alla richiesta di rinvio a giudizio del solo Ri. per il reato di tentata concussione nonché di Ri. e Ur. per calunnia e diffamazione;
– Ma. lasciava poi la notizia nelle pagine del proprio sito internet omettendo di aggiornarla con gli sviluppi successivi, che erano completamente favorevoli a Ri. ed Ur., scagionati da ogni accusa con provvedimenti divenuti definitivi (non luogo a procedere dal GUP presso il Tribunale di Campobasso per entrambi; dal GUP Tribunale di Sulmona per Ri.; archiviazione per Ri.).
I fatti, come detto, sono scarni, semplici e non contestati.
Tutte le ulteriori prove richieste dalle difese delle parti civili sono parse davvero ultronee ed insignificanti per la decisione, tanto che le stesse difese alla fine hanno rinunziato alla escussione di molti dei testi indicati in lista. In sostanza l’intenzione delle parti civili era dimostrare la pervicacia della Ma. nel criticare il Co. e nel porre in essere attività di concorrenza sleale. Tutti elementi che non sono neppure di contorno, essendo di certo possibile per un privato cittadino esercitare il proprio diritto di critica proprio con quelle modalità (alle volte davvero aggressive) utilizzate dalla stessa associazione oggi costituita parte civile.
Peraltro si tenga presente che l’ambiente di riferimento è quello delle associazioni di consumatori (oltre a Co. ed all’associazione della Ma. è stata coinvolta anche As. della quale è presidente Tr.) che spesso svolgono meritorie attività di tutela dei diritti dei cittadini, utilizzando però strumenti anche mediatici di impatto e facendosi un’aspra concorrenza proprio per attirare l’attenzione e conseguentemente avere un gran numero di iscritti.
Non può dunque stupire l’esistenza di un aperto (ed aspro) dissidio tra i vari esponenti di tali enti.
Ciò che, però, rileva per il presente processo è unicamente la presenza di diffamazione nell’operato della Ma. In particolare, appurato che la notizia storica inserita nel sito internet corrisponde a verità, è necessario chiedersi se l’omesso aggiornamento mediante inserimento dell’esito del procedimento penale costituisca un comportamento diffamatorio. La risposta è positiva.
Innanzi tutto è opportuno precisare che la qualifica di un soggetto come indagato, o peggio ancora come imputato, è certamente idonea a qualificare negativamente l’immagine, il decoro e la reputazione di una persona, soprattutto quando si tratta di soggetto noto al pubblico.
La reputazione, infatti, consiste nell’opinione o stima di cui l’individuo gode in seno alla società in ragione delle proprie qualità e capacità, ed è indubbio che fra queste l’onestà di vita e di costumi assuma peso decisivo; la notizia che taluno è soggetto adindagine penale induce un dato oggettivo avvertito negativamente da chiunque e credibilmente scalfisce l’originario giudizio estimatorio, essendo assolutamente impossibile al medio lettore di percepire immediatamente l’ipotetica falsità o infondatezza dell’accusa. La notizia inizialmente inserita nel sito internet, tuttavia, era certamente vera e dunque la mera diffusione della richiesta di rinvio a giudizio di Ri. e di Ur., “vertici” del Co., non è di per sé fonte di alcuna responsabilità.
Tuttavia, nel momento in cui tale notizia cessa di essere reale poiché non più attuale e smentita dai fatti successivi ed i soggetti coinvolti vengono completamente scagionati da ogni accusa, incombe sul soggetto che ha pubblicato la notizia l’onere di aggiornarla ovvero (se proprio non si vuole tratteggiare in modo positivo l’oggetto della critica) quantomeno di eliminarla dal sito.
Nel caso in esame invece Ma. non ha né aggiornato né eliminato la notizia: chiunque ne avesse avuto interesse è stato per anni informato del rinvio a giudizio dei “vertici” del Co. e di tutte le conseguenze che la Ma. ne traeva in punto di rispettabilità di tale associazione.
Giova ricordare (cfr. ad es. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 36244 del 08/07/2004) che in tema di diffamazione a mezzo stampa, nell’ambito dellacronaca giudiziaria la verità della notizia deve essere riferita agli sviluppi di indagine quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo, mentre la verifica di fondatezza della notizia, effettuata all’epoca dell’acquisizione di essa, deve essere aggiornata nel momento diffusivo, in ragione del naturale e non affatto prevedibile percorso processuale della vicenda. Tale statuizione è certamente riferibile al caso in esame sia perché i principi relativi alla “stampa” possono essere applicati a quelli della diffusione delle notizie a mezzo internet, sia perché con tale strumento le notizie permangono “in rete” a tempo indefinito e possono essere agevolmente consultate mediante una semplice indagine con qualunque motore di ricerca.
È stato anche precisato (cfr. ad es. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 5356 del 1999) che sussiste un vero e proprio dovere di controllo tutte le volte in cui ad una corretta verifica iniziale succeda nel tempo un evento che privi la notizia stessa del carattere dell’attualità e la renda, quindi, oggettivamente priva di fondamento (e dunque falsa).
Posto che si verte pur sempre in ipotesi di notizie lesive dell’altrui reputazione, l’esenzione dal dovere di controllo “finirebbe per giustificare proprio la pubblicazione di notizie che si siano rivelate, per sviluppi ulteriori o, se del caso, addirittura per intervento giudiziale, destituite di fondamento, ed in ordine alle quali, quindi, il soggetto coinvolto risulti esserlo stato se non del tutto estraneo… In particolare, a chi intenda dar conto di una vicenda che implichi risvolti giudiziari a distanza di tempo dall’epoca di acquisizione della notizia, corre un obbligo ancor più stringente, in ragione del naturale niente affatto prevedibile del percorso processuale della vicenda, di completare e quindi “aggiornare” la verifica di fondatezza della notizia nel momento diffusivo, utilizzando le pregresse fonti informative, o di ancor più idonee, se ne possa lecitamente disporre.
La sentenza afferma anche che “qualunque individuo coinvolto in indagini di natura penale, è titolare di un interesse primario a che, caduta ogni ragione di “sospetto”, la propria immagine non resti offesa da notizie di stampa che riferiscano dell’iniziale coinvolgimento ed ignorino, invece, l’esito positivo delle indagini stesse È, infine, doveroso osservare che:
– l’inserimento della notizia risale agli anni tra il 2007 ed il 2008; la notizia – con i commenti della Ma.
– è rimasta pubblicata fino al momento in cui è stata oscurata con provvedimento di sequestro;
– sussiste certamente il dolo in capo alla Ma. che ha volontariamente lasciato immutate le notizie come inizialmente inserite; solo in corso di processo – dopo l’emissione di un primo provvedimento di sequestro – Ma. ha pubblicato sul sito il testo dei provvedimenti che scagionavano le due persone offese, peraltro in un “luogo” del tutto marginale del sito internet;
– l’utilizzo di un sito internet per la diffusione di immagini o scritti atti ad offendere un soggetto è azione idonea a ledere il bene giuridico dell’onore nonché potenzialmente diretta “erga omnes” e come tale integra il reato di diffamazione aggravata (cfr. tra le tante Cassazione penale, sez. V, 17 novembre 2000, n. 4741);
– l’obbligo di informare correttamente e di non diffamare mediante inserimento di notizie “superate” deve essere rigorosamente rispettato; dunque è doveroso per chi inserisce notizie come quelle in esame seguire lo sviluppo della vicenda e, una volta appreso l’esito positivo per l’indagato o l’imputato, agire immediatamente o mediante l’eliminazione della notizia dal sito o mediante la pubblicazione della notizia afferente all’esito. Non pare invece corretta la semplice indicazione senza commento alcuno e soprattutto senza alcun riferimento alla notizia inizialmente pubblicata – deiprovvedimenti giurisdizionali. Le modalità di pubblicità della notizia “positiva” devono infatti essere le medesime rispetto a quelle utilizzate nell’inserimento della notizia “negativa”; pare evidente che l’utilizzo di modalità differenti nel trattare le due notizie è di per sé insufficiente ed inidoneo a ristabilire l’onore, il decoro ed il prestigio in precedenza offuscati.
Ma. deve dunque essere dichiarata responsabile del reato di cui all’art. 595 c.p. con la precisazione che, per quanto attiene alla misura della pena da infliggere, la complessiva vicenda non può che condurre ad una valutazione della sanzione in modo assolutamente ridotto.
Deve infatti essere osservato che:
– la notizia della richiesta di rinvio a giudizio era senz’altro vera;
– le persone interessate alle sorti processuali delle odierne parti civili avevano senz’altro la possibilità di apprendere l’esito dei processi;
– non è stata in alcun modo dimostrata l’esistenza di un grave danno all’immagine delle parti civili; di certo il solo fatto di essere persona nota ad alcuni cittadini non è di per sé ragione a per ritenere grave il reato;
– l’ambito di riferimento – come detto – è caratterizzato per l’esistenza di toni accesi e critiche anche aspre (ne è esempio la sentenza con la quale Tr. è stato assolto per l’uso di espressioni “forti” nei confronti della Ma.);
– l’imputata è incensurata, ha reso esame, ha inserito nel proprio sito internet – sebbene con modalità non del tutto soddisfacenti – i provvedimenti favorevoli a Ri. e Ur.
In base a tali elementi è certamente possibile concedere le attenuanti generiche, da ritenere prevalenti sulla contestata aggravante.
Valutate poi tutte le circostanze di cui all’art. 133 c.p. – come sopra indicate – si stima equa la pena di Euro 600,00 di multa (Euro 900 con riduzione di un terzo per le generiche). All’affermazione della penale responsabilità segue la condanna al pagamento delle spese processuali. Le pagine web in sequestro devono essere confiscate e i dati elettronici forniti dalla Polizia postale devono essere distrutti.
Ai sensi degli artt 36 cp e 9 l. 47/48 (come conseguenza obbligata) nonché ai sensi dell’art. 186 c.p. (come mezzo per la riparazione del danno morale, fatto di cui si dovrà tenere conto anche in sede di giudizio civile per la quantificazione del danno con particolare riferimento all’art. 120 c.p.c.) si ordina la pubblicazione della presente sentenza, per estratto ed in formato PDF non modificabile, nella pagina diapertura del sito internet (…). Segue infine la condanna al risarcimento del danno cagionato dal reato alla parte civile. Al proposito si deve – ancora una volta – osservare che le pretese delle tre parti civili sono davvero esorbitanti e rendono palese come si sia in presenza di una notevole animosità, peraltro solo in parte giustificata. Si pensi, ad esempio, che viene avanzata la richiesta, a solo titolo di provvisionale, di Euro 30.000 per ciascuna parte civile.
Nel contempo, però, nessuno ha provato (e nemmeno offerto di provare) quale sia il danno concretamente subito dal Co., da Ri. e da Ur. Viene dato per scontato, in modo del tutto tautologico, che dalla pubblicazione della notizia siano derivati danni gravissimi alle tre persone offese.
Tale prova verrà offerta al Giudice Civile al quale le parti vengono rimesse per la valutazione del danno. Certamente nella presente sede le presunzioni non hanno alcun valore; la richiesta di provvisionale deve pertanto essere respinta.
Sempre in ordine alle questioni economiche, le Difese hanno avanzato una richiesta di rifusione che pare doveroso definire eccessiva. Per le parti civili Ri. e Co. sono state chieste Euro 10.674 per compensi; Euro 1.601 per spese generali; 2.809 per spese vive ed Euro 594 per spese di trasferta.
Il processo si è tenuto sostanzialmente in due udienze edavrebbe in realtà dovuto concludersi in una sola, se non fossero state avanzate proprio dalla difesa di parte civile prove del tutto ininfluenti al fine di decidere. Procedere a liquidare importi come quelli sopra indicati è davvero eccessivo, tenuto conto della semplicità (di fatto e di diritto) delle questioni sottese al processo. Si deve peraltro notare che le udienze sono state fissate sull’accordo delle parti tenendo conto della provenienza geografica degli avvocati di parte civile e non è in alcun modo possibile porre a carico della Ma. le spese di vitto ed alloggio chieste da coloro che ben avrebbero potuto raggiungere Genova in giornata. Si tenga presente che il protocollo di intesa raggiunto dal Tribunale di Genova con l’ordine degli Avvocati prevede che per il dibattimento l’importo da liquidare ammonta ad Euro 1.300 oltre accessori.
Devono comunque essere applicati i valori di cui al DM 55/2014 che prevede (nei medi, anche a non voler considerare i minimi) la liquidazione di Euro 450 per lo studio, Euro 540 per la fase introduttiva, Euro 1.080 per la fase istruttoria e dibattimentale ed Euro 1.350 per la decisione per un totale di Euro 3.420,00.
A tale somma deve poi essere aggiunto il compenso per le due istanze cautelari, che si sono sostanziate in realtà in due brevi scritti. Per ciascuna di esse è possibile liquidare lasomma di Euro 1.100, per un totale di Euro 2.200,00.
Alla somma di Euro 5.620,00 possono essere poi aggiunte le spese vive e di trasferta che si limitano in Euro 380,00 per un totale complessivo di Euro 6.000,00.
Tale somma non può però essere posta per intero a carico della prevenuta, tenuto conto del fatto che le pretese civilistiche avanzate sono manifestamente ed ingiustificatamente esorbitanti.
Pare dunque equo e corretto compensare, ex art. 541 comma 2 c.p.p., le predette spese per la metà, ponendo a carico della Ma. unicamente Euro 3.000 (oltre accessori) per ciascuna parte civile, con l’ovvia considerazione che gli onorari per l’Avv. Le. (che difende due parti civili) dovranno essere calcolate ex art. 12 comma 2 con l’aumento del 20% sulla somma base di Euro 3.000.
P.Q.M.
Visti gli articoli 533 – 535 c.p.p. dichiara l’imputata responsabile del reato a lei ascritto e, concesse le attenuanti generiche ritenute prevalenti sull’aggravante contestata, la condanna alla pena di Euro 600,00 di multa oltre al pagamento delle spese processuali.
Ordina la pubblicazione della sentenza, in formato PDF, sul sito (…).
Dispone la confisca e la distruzione dei dati elettronici sottoposti a sequestro.
Condanna l’imputata a risarcire alle parti civili i danni provocati dal reato,rimettendole nanti al competente Giudice Civile per la quantificazione.
Visto l’art. 541 c.p.p. condanna l’imputata a rifondere alle PC le spese di lite che liquida – compensandole per la metà – in Euro 3.000,00 oltre 12,5%, IVA e CPA per ciascuna delle parti civili.
Così deciso in Genova il 6 giugno 2016. Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2016.
[1] Trib. Genova sent. n. 3582/2016.
[2] Art. 595 cod. pen.
(Fonte: La Legge per tutti)


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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