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IRAP: rimborsi più difficili per professionisti e piccole imprese


Fisco Ordine Informa

IRAP: quando è possibile chiedere il rimborso? Da quando decorre il termine di prescrizione per ottenere la restituzione delle somme versate? 48 mesi per chiedere il rimborso dell’IRAP per tutti gli studi professionali e le piccole aziende che – secondo quanto chiarito lo scorso maggio dalle Sezioni Unite della Cassazione [1] – impiegano un solo dipendente con funzioni meramente esecutive, come una segretaria: ma il termine non decorre né dalla data della predetta sentenza né da quella della Corte Costituzionale del 2001 [2] (secondo cui è tenuto a pagare l’imposta solo chi ha una “autonoma organizzazione”), ma dalla data dell’effettivo versamento del tributo. È quanto ha chiarito la Suprema Corte lo scorso 27 luglio [3]. Una sentenza che taglia le gambe a molti contribuenti per i quali si sono ormai prescritti i termini per chiedere il rimborso dell’IRAP illegittimamente versata.
A lungo i confini dell’IRAP, l’imposta sulle attività produttive, sono rimasti confusi e mobili. Solo qualche mese fa la Cassazione ha messo fine alle incertezze parlando, per la prima volta, in termini quantitativi: bastano due dipendenti con funzioni meramente esecutive o uno soltanto con mansioni professionali (in grado cioè di potenziare l’attività del contribuente) per far scattare l’autonoma organizzazione che è il presupposto dell’imposta. Invece, il professionista o l’azienda che impiega un solo dipendente che svolta attività meccaniche e manuali, come una segretaria (ma lo stesso vale nel caso di due dipendenti, con contratto part time) non deve pagare l’IRAP.
L’interpretazione è stata accolta con grande entusiasmo dagli operatori del settore, entusiasmi però subito smorzati per chi, in tutti questi anni, ha versato l’imposta e ora assaporava già l’idea di un “maxi-rimborso IRAP”. Tutto ciò che sarà concesso è il rimborso degli ultimi due anni di imposta: per quelli precedenti è già scattata la prescrizione. Difatti, come chiarito dalla Cassazione con la sentenza di qualche giorno fa, il termine per chiedere il rimborso IRAP non scatta dal momento in cui il contribuente è venuto a conoscenza del fatto che non era tenuto a versare l’imposta (appunto con la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite o quella della Corte Costituzionale del 2001) bensì dal giorno dell’effettivo versamento del tributo.
Il termine per ottenere il rimborso dell’IRAP illegittimamente versata decorre dal versamento del tributo.
LA SENTENZA
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – T, ordinanza 15 giugno – 27 luglio 2016, n. 15530
In fatto e in diritto
B.A. presentava istanza di rimborso relativa all’IRAP versata per gli anni dal 1999 al 2005 in data 19.5.2004. Il successivo silenzio rifiuto veniva impugnato dalla parte contribuente innanzi alla CTP di Forlì che accoglieva il ricorso. L’Agenzia delle entrate impugnava la sentenza di primo grado con specifico riguardo all’annualità versata dal contribuente nel 1999 e la CTR dell’Emilia Romagna, con la sentenza n. 1507/02/14, depositata il 9 giugno 2014, rigettava il ricorso ritenendo che, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 156/2001- dalla quale era emersa la circostanza che il contribuente non era soggetto ad IRAP – doveva ritenersi la tempestività della domanda di rimborso, decorrendo la stessa dalla data della sentenza del giudice costituzionale – 21 maggio 2001 – in forza dei principi in tema di overrulling. L’istanza di rimborso doveva pertanto ritenersi tempestiva all’epoca in cui la stessa era stata presentata.
L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, al quale ha resistito la parte intimata con controricorso.
L’Agenzia ricorrente deduce la violazione degli artt. 38 dPR n. 602/73 e dell’art. 21 d.lgs. n. 546/72. Premesso che erano pacifici il versamento delle somme relative ad IRAP nell’anno 1999 e la presentazione dell’istanza di rimborso del contribuente in data 19 maggio 2004, la ricorrente evidenzia l’erroneità della decisione impugnata, che aveva applicato i principi in tema di c.d. overrulling all’ipotesi di mutamento giurisprudenziale relativo all’esistenza dei presupposti per l’assoggettabilità al tributo IRAP nei confronti degli esercenti l’attività di libero professionista, tralasciando così di considerare che la possibilità di non subire gli effetti del mutamento di interpretazione da parte del soggetto che aveva fatto affidamento sulla precedente consolidata giurisprudenza atteneva unicamente alle norme processuali.
La parte intimata ha chiesto il rigetto del ricorso.
Il ricorso è manifestamente fondato.
Questa Corte ha avuto modo di chiarire che affinché si possa parlare di “prospective overrulling“, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: a)che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; b)che il suddetto “overruling” comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte – cfr. Cass. n. 16132/2015 -.
Orbene, del tutto errato è risultato il richiamo operato dalla CTR all’applicazione del c.d. overrulling ragione dell’affidamento che il contribuente avrebbe goduto in epoca anteriore alla pronunzia della Corte costituzionale n.156/2001 in ordine alla debenza del tributo, sì da poter fruire del termine di decadenza decorrente da tale decisione con la quale sarebbe stata chiarita, con efficacia interpretativa vincolante, l’insussistenza del tributo in assenza del presupposto dell’esercizio di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. E ciò per due ragioni parimenti essenziali.
Per l’un verso, come già chiarito da questa Corte – v. Cass. n.174/2015 – i principi espressi da Cass. S.U. n. 15144/2011 in tema di c.d. overrulling hanno riguardato, esclusivamente, gli effetti processuali di un mutamento giurisprudenziale e non quelli di natura sostanziale che qui vengono semmai in discussione – in termini v. Cass. a 13087/12 – introducendo, dunque, un principio innovatore a tutela dell’affidamento delle parti nella stabilità delle
nella stabilità delle regole del processo. In questa direzione si è espressa, molto di recente, Cass. S.U. n. 13676/14, affermando che “…affinché si possa parlare di prospective overruling, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte“. Un’altra ragione non meno decisiva per ritenere l’erroneità della decisione è poi data dalla circostanza che le sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale, a differenza di quanto prospettato dalla difesa della parte controricorrente, non hanno generale efficacia erga omnes nei confronti dei giudici diversi da quello a quo che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale oggetto di tali sentenze. Queste ultime, secondo la giurisprudenza a Sezioni Unite di questa Corte, a differenza di quelle dichiarative dell’illegittimità costituzionale di norme, determinano solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa questione, mentre in tutti gli altri casi il giudice conserva il potere-dovere di interpretare in piena autonomia le disposizioni di legge, a norma dell’articolo 101, comma 2 Costituzione, purché ne dia una lettura costituzionalmente orientata, ancorché differente da quella indicata nella decisione interpretativa di rigetto. In definitiva, come affermato dalle Sezioni Unite penali di questa Corte, non basta che il Giudice delle leggi definisca una certa interpretazione come costituzionalmente obbligata e la sola compatibile con le norme della Costituzione perché questa possa imporsi all’osservanza dei giudici, essendo questi ultimi tenuti autonomamente a verificare, con l’uso di tutti gli strumenti ermeneutici dei quali dispongono, se la norma possa realmente assumere quel significato e quella portata; e, qualora le premesse ermeneutiche della soluzione proclamata costituzionalmente obbligata travalichino i limiti dell’interpretazione letterale – logico – sistematica, i giudici hanno il dovere di non attenersi a quella soluzione, per la decisiva ragione che, in caso contrario, disapplicherebbero una norma vigente e arrecherebbero un vulnus ai principi di legalità e di soggezione alla legge – cfr. Cass. S.U. pen., 17 maggio 2004 n. 23016, Pezzella, alla quale è seguita la presa d’atto dei superiori principi da parte di Corte cost. n. 299/2005 -. Tali principi sono stati ribaditi da Cass. S.U. n. 22601/2004 e ancora più di recente, Cass. S.U. n. 27986/2013. Pertanto, resta esclusa la possibilità di attribuire alla sentenza interpretativa di rigetto quell’effetto retroattivo che si riconosce ordinariamente alle sentenze che dichiarano l’incostituzionalità di una legge ed al quale ha fatto riferimento la difesa del controricorrente proprio per il margine di apprezzamento comunque riservato al giudice comune nell’applicazione e interpretazione del dato normativo. Margine che non consente, per l’effetto, al soggetto destinatario di “fare affidamento” sulla sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale. E ciò senza nemmeno considerare che secondo un indirizzo di questa Corte, proprio la sentenza della Corte cost. n. 156/2001, ha sì respinto tutte le numerose censure di incostituzionalità sollevate dai giudici rimettenti ma non ha adottato “… neppure una sentenza interpretativa di rigetto, poiché non ha condizionato la legittimità del provvedimento legislativo alla circostanza che lo stesso venga interpretato nei sensi resi palesi dalle motivazioni. Quanto detto è avvalorato dal fatto che la stessa Corte Costituzionale, con le ordinanze n. 286/2001 e n. 103/2002, ha riconfermato la piena legittimità degli articoli articoli 2 e 3 su richiamati, pur avendo potuto, in tali successivi giudizi di legittimità costituzionale, alla luce del dibattito giurisprudenziale originato dalla citata sentenza n. 156, intervenire con pronunce di tipo additivo o interpretativo, ovvero per specificare gli effetti che aveva inteso apportare sulla disciplina IRAP con la predetta sentenza, cosa che non è avvenuta. Non possono, quindi, individuarsi nuovi criteri interpretativi di applicazione dell’imposta in base alle motivazioni adottate dalla Corte” – cfr. Cass. n. 3672/2007 -.
Sulla base di tali considerazioni, idonee a superare i rilievi difensivi esposti dalla parte controricorrente, la CTR ha errato nel far decorrere il termine di decadenza per il rimborso reclamato dal contribuente dall’epoca della sentenza della Corte costituzionale che aveva tratteggiato i presupposti per l’assoggettabilità ad IRAP dell’attività libero professionale e non da quella del versamento del tributo.
Il ricorso va pertanto accolto e non ricorrendo ulteriori accertamenti in punto di fatto la causa può essere decisa nel merito con il rigetto del ricorso introduttivo, compensando le spese dell’intero giudizio in relazione al recente formarsi della giurisprudenza di questa Corte sui punti controversi.
P.Q.M.
la Corte, visti gli artt. 375 e 380 bis c.p.c.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta il ricorso introduttivo, compensando integralmente le spese del giudizio.
[1] Cass. S.U. sent. n. 9451/2016.
[2] C. Cost. sent. n. 156/2001.
[3] Cass. ord. n. 15530/16 del 27.07.2016.
(Fonte: La Legge per tutti)


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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