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Inserimento in azienda, scatta la subordinazione


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Definire il confine tra lavoro subordinato e lavoro autonomo è uno dei compiti che sempre più spesso ha impegnato la giurisprudenza, negli ultimi anni, come conseguenza di un contenzioso in aumento su questa materia. Soprattutto nell’attuale scenario economico, infatti, è frequente che i controlli su forme flessibili di impiego portino a individuare rapporti che – sotto la forma del lavoro autonomo, apparentemente indipendente – sono in realtà di natura subordinata.
Il lavoro subordinato è stato riconosciuto dalla legge 92/2012, salvo radicali cambiamenti, come la forma comune dei rapporti di lavoro. Il lavoro autonomo, peraltro, risulta imbrigliato nei numerosi e – talvolta – inconcludenti limiti al suo utilizzo.
L’elemento distintivo.
Il principio di diritto che emerge dalle numerose sentenze sul tema è che l’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al lavoro autonomo, assumendo la funzione di parametro normativo di individuazione della natura subordinata del rapporto, è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia e inserimento nell’organizzazione aziendale.
Quindi, come si legge nella sentenza della Cassazione 1569 del 2 gennaio 2013, altri elementi, come l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva. Il caso trattato in questa sentenza riguardava il riconoscimento di un lavoro subordinato tra un’istruttrice di ginnastica aerobica e una associazione sportiva. In particolare, la Corte ha accolto il ricorso dell’associazione, poiché il giudice del merito aveva valutato unicamente l’inserimento organico della lavoratrice nell’organizzazione aziendale, omettendo valutazioni sull’esercizio dell’effettivo potere direttivo e disciplinare.
Nel caso affrontato dalla Cassazione con la sentenza n. 2931/2013, invece, la Corte territoriale, accogliendo il ricorso del lavoratore, afferma che la qualificazione della collaborazione coordinata e continuativa si può desumere da una serie di elementi:la redazione dell’inventario, la consegna dei libri contabili, la delega all’incasso e al prelievo sul conto aziendale, la scelta del sostituto in caso di assenza. La Cassazione ribalta, tuttavia, la pronuncia, sostenendo che l’esame del giudice del merito deve focalizzarsi sull’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro. Questo assoggettamento, prosegue la Corte, deve essere concretamente apprezzato in relazione alla specificità dell’incarico conferito e al modo della sua attuazione.
La rilevanza del contratto.
La verifica della subordinazione, inoltre, non può prescindere dalle caratteristiche della prestazione dedotta in contratto.
In realtà, nel caso in cui questa sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione e, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti particolarmente significativo, bisogna ricorrere a criteri distintivi sussidiari.
Si pensi, così, alla continuità e alla durata del rapporto, alle modalità di erogazione del compenso, alla regolamentazione dell’orario di lavoro, alla presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e alla sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione del prestatore, desunto anche dalla eventuale concomitanza di altri rapporti di lavoro.
Anche in questo caso, la Cassazione, non condividendo il ragionamento della Corte di merito, nega l’esistenza di un rapporto di natura subordinata, sostenendo, invece, la natura autonoma della prestazione poiché il professionista risultava titolare di uno studio e aveva svolto attività a favore di terzi anche durante l’attività a favore del datore di lavoro.
Le pronunce.
– IL FALSO ASSOCIATO IN PARTECIPAZIONE Dopo un accertamento ispettivo dell’Inps, un contratto di associazione in partecipazione di un lavoratore di un’azienda di falegnameria è trasformato in un contratto a tempo indeterminato. La vicenda arriva in Cassazione. La Corte respinge il ricorso dell’azienda, condividendo il ragionamento della Corte territoriale. I giudici del merito hanno avuto modo di accertare, con il vaglio degli elementi istruttori, che anche durante il periodo interessato dalla stipula del contratto di associazione in partecipazione tra le parti permaneva, in realtà, un rapporto di lavoro subordinato. Infatti, non c’era alcuna traccia contabile di rendiconto annuale o di effettiva partecipazione agli utili o di addebito delle perdite d’esercizio, né la prova di effettivi atti di gestione del conto corrente cointestato tra lavoratore e azienda.Infine, conclude la Corte, i contatti del lavoratore con i fornitori e con la clientela ben potevano entrare a far parte delle mansioni di un dipendente di un’impresa artigiana di ebanisteria, che si reca presso i fornitori per prelevare e pagare i materiali o presso la clientela per rendersi conto del manufatto da realizzare, incassandone il corrispettivo in nome e per conto del datore di lavoro (Cassazione 2884/2012). Corte di Cassazione, sentenza 5 settembre 2012, n. 14911.
– LA FATTURA NON DIMOSTRA L’AUTONOMIA Una società farmaceutica soccombe in primo e in secondo grado per un ricorso presentato nei confronti dell’Inps, che aveva riqualificato dei rapporti di lavoro autonomo in subordinato. L’azienda si era avvalsa di un certo numero di persone addette alla «bollinatura» dei prodotti farmaceutici, non regolarizzandole come dipendenti. La Cassazione, confermando le pronunce precedenti, evidenzia che il requisito della subordinazione si evince, tra l’altro, dal livello molto modesto dell’attività professionale svolta. Infatti, l’incollaggio di bollini autoadesivi sul prodotto in deposito non richiede normalmente direttive e controlli continui da parte del committente e, di conseguenza, acquistano valore i cosiddetti elementi sussidiari. In pratica, il livello
professionale modesto dell’attività svolta, protratto per diverso tempo senza alcun contratto scritto, atto a circoscriverne il perimetro, nell’ambito di una organizzazione disciplinata dal responsabile del magazzino (sia pure all’esterno dell’azienda), senza assunzione di rischi da parte del lavoratore, configura la subordinazione, anche in presenza di pagamenti effettuati con partita Iva. Corte di Cassazione, sentenza 19 gennaio 2010, n. 794.
PRESTAZIONE A CASA, CONVERSIONE POSSIBILE Un lavoratore a domicilio richiede al giudice il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro per la «pinzatura» di manufatti prodotti a favore di una azienda. La Corte del merito, richiamando le argomentazioni del primo giudice, accoglie le ragioni del dipendente riconoscendo la natura subordinata del rapporto. In sostanza, la carenza della scelta nelle modalità di esecuzione della prestazione comporta la trasformazione del rapporto di lavoro. La Cassazione, respingendo il ricorso della società, afferma che il rapporto di lavoro a domicilio è configurabile come rapporto di lavoro autonomo solo quando il prestatore d’opera sceglie autonomamente le modalità di esecuzione della prestazione.
Se invece la prestazione comporta lo svolgimento di operazioni analoghe a quelle effettuate all’interno della sede aziendale, il rapporto di lavoro può definirsi invece di natura subordinata. Inoltre, secondo la Corte, non aveva nessuna rilevanza che la lavoratrice avesse prestato lavoro alle dipendenze di un altro datore non essendo, tra l’altro, prevista nel contratto una pattuizione di non concorrenza. Corte di Cassazione, sentenza 24 aprile 2013, n. 10007
– LAVORO INTELLETTUALE, CRITERI SUSSIDIARI Una lavoratrice grafica chiede il riconoscimento di un rapporto di natura subordinata. In primo grado e in appello ottiene sentenza favorevole. La Cassazione, condividendo il ragionamento del giudice del merito, afferma che in caso di prestazioni che, per la loro natura intellettuale, mal si adattano a essere eseguite sotto la direzione del datore di lavoro e con una continuità regolare, anche negli orari, per la qualificazione del rapporto come subordinato o autonomo, sia pure con collaborazione coordinata e continuativa, il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere necessariamente accertato o escluso ricorrendo a elementi sussidiari. Corte di Cassazione, sentenza 13 aprile 2012, n. 5886
– L’ATTIVITÀ PREVALE SULLA VOLONTÀ DELLE PARTI La Cassazione affronta la questione della prevalenza delle concrete modalità di svolgimento del rapporto sulla volontà espressa dalle parti nel contratto. Un dirigente d’azienda chiede la condanna della società al pagamento delle differenze retributive per un rapporto di lavoro dipendente. La Cassazione, accogliendo le ragioni della ditta, afferma che, sulla distinzione tra il rapporto di lavoro subordinato e il rapporto di lavoro autonomo, le concrete modalità di svolgimento del rapporto prevalgono sulla diversa volontà manifestata nella scrittura privata eventualmente sottoscritta dalle parti, ben potendo le qualificazioni riportate nell’atto scritto risultare non esatte, per mero errore delle parti o per volontà delle stesse, che intendano usufruire di una normativa specifica o eluderla.
In sostanza, dall’analisi delle risultanze probatorie, la Cassazione ha ritenuto che la corte territoriale ha valorizzato elementi non decisivi per la qualificazione del rapporto subordinato, come la comunicazione inviata a dipendenti, collaboratori, clienti e fornitori con la qualifica di responsabile di un settore dell’azienda, a capo della direzione commerciale; la quotidiana presenza in azienda; la sottoscrizione della corrispondenza per conto dell’azienda; l’invio periodico ai vertici della società di relazioni sull’attività; la percezione di un compenso fisso mensile e il rimborso delle spese; il rilascio di fatture per le somme mensili ricevute e la percentuale sugli affari. In conclusione, si legge, il magistrato non ha raggiunto «la prova certa» della qualificazione del rapporto subordinato, tale da sovvertire la volontà delle parti espressa nella scrittura privata (Cassazione 8300/2012). Corte di Cassazione, sentenza 8 giugno 2012, n. 9347
– CONTA L’INSERIMENTO NELL’ORGANIZZAZIONE Un giornalista ha avuto con una emittente televisiva dapprima un contratto di lavoro autonomo come presentatore e regista, in seguito, diversi contratti subordinati a tempo determinato come programmista-regista. Respinto il ricorso in primo grado, la Corte d’appello cambia direzione, affermando la subordinazione del lavoratore, con la qualifica di redattore e applicazione del relativo contratto nazionale. La Cassazione, respingendo il ricorso dell’emittente televisiva, conferma la dipendenza del giornalista. La Corte individua come elementi rilevatori della subordinazione: lo svolgimento di un’attività non occasionale, rivolta ad assicurare le esigenze informative riguardanti un particolare settore, la sistematica redazione di articoli su specifici argomenti o di rubriche, e la persistenza, nell’intervallo tra una prestazione e l’altra, dell’impegno di porre la propria opera a disposizione del datore di lavoro, in modo da essere sempre disponibile per soddisfarne le esigenze ed eseguire le direttive.
Mentre, per l’estensore, sono indici negativi la pattuizione di prestazioni singole e retribuite in base a distinti contratti che si succedono nel tempo, o la convenzione di singole, anche se continuative, prestazioni secondo la struttura del conferimento di una serie di incarichi professionali. In conclusione, per la Corte, l’elemento che caratterizza la subordinazione nel lavoro giornalistico è rappresentato dallo stabile inserimento della prestazione resa dal giornalista nella organizzazione aziendale: con questa prestazione, il datore di lavoro assicura in via stabile o quantomeno per un apprezzabile periodo di tempo, la soddisfazione di una esigenza informativa del giornale, con la sistematica compilazione di articoli o di rubriche e, quindi, esige, come tale, il permanere della disponibilità del lavoratore, pur nell’intervallo fra una prestazione e l’altra. Corte di Cassazione, sentenza 21 giugno 2012, n. 10332
– NON BASTA L’USO DI BENI AZIENDALI Il caso riguarda una questione di competenza ma appare interessante evidenziare il principio di diritto affermato dalla Cassazione. L’azione giudiziaria è stata avanzata dal responsabile commerciale di un’azienda, ingaggiato con contratto autonomo. L’azienda aveva una sede legale diversa dal luogo in cui il lavoratore prestava la sua attività. Il lavoro era svolto con l’uso di macchina aziendale, fax e cellulare, messi a disposizione dall’impresa, anche presso l’abitazione del lavoratore. La Cassazione ha così avuto modo di chiarire che l’aver dotato il lavoratore di beni aziendali (quali appunto la macchina, il fax o il cellulare) non è di per sé sufficiente a configurare un rapporto di lavoro subordinato. In sostanza, la Corte ha precisato che la dotazione o il possesso di beni aziendali prescindono dal collegamento con un dato luogo, mentre il fax, da solo, è una dotazione veramente troppo esigua per identificare nell’abitazione del lavoratore una dipendenza aziendale. Corte di Cassazione, sentenza 30 luglio 2012, n. 13594
(fonte Il Sole 24ore)


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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