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Infortuni sul lavoro: soggetti responsabili e posizioni di garanzia


Ordine Informa

Con riguardo alla sicurezza sul lavoro, in azienda vi sono distinti ruoli di organizzazione e responsabilità e distinte posizioni di garanzia: datore di lavoro, medico competente, responsabile del servizio di prevenzione.
Occorre comprendere come si articoli, nel sistema della sicurezza del lavoro, la posizione di garanzia, come essa debba essere definita in linea di principio e come debba essere riconosciuta in concreto nell’organizzazione aziendale.
La materia è disciplinata dal D.Lgs. 81/2008, che ha recepito la sistemazione dell’istituto che si era formata nel corso di una lunga giurisprudenza.
Raccogliendo le indicazioni che in modo sostanzialmente coerente provengono da queste fonti, occorre preliminarmente rammentare che il sistema prevenzionistico, come è noto, è tradizionalmente fondato su diverse figure di garanti che incarnano distinte funzioni e diversi livelli di responsabilità organizzativa e gestionale.
La prima figura è quella del datore di lavoro. Si tratta del soggetto che ha la responsabilità dell’organizzazione dell’azienda o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa.
La definizione contenuta nel D.Lgs. 81/2008 è simile a quella contenuta nella normativa degli anni ‘90 e a quella fatta propria dalla giurisprudenza, e sottolinea il ruolo di dominus di fatto dell’organizzazione e il concreto esercizio di poteri decisionali e di spesa.
L’ampiezza e la natura dei poteri è ora anche indirettamente definita dall’art. 16 che, con riferimento alla delega di funzioni, si occupa del potere di organizzazione, gestione, controllo e spesa.
Il dirigente costituisce il livello di responsabilità intermedio: è colui che attua le direttive del datore di lavoro, organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa, in virtù di competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli.
Infine, il preposto è colui che sovraintende alle attività, attua le direttive ricevute controllandone l’esecuzione, sulla base e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico.
Per ambedue le ultime figure occorre tenere conto, da un lato, dei poteri gerarchici e funzionali che costituiscono la base e il limite della responsabilità e, dall’altro, del ruolo di vigilanza e controllo. Si può dire, in breve, che si tratta di soggetti la cui sfera di responsabilità è conformata sui poteri di gestione e controllo di cui concretamente dispongono.
Queste definizioni tratteggiano grandi contenitori concettuali che subiscono specificazioni in relazione a diversi fattori, quali il settore di attività, la conformazione giuridica dell’azienda, la sua concreta organizzazione e le sue dimensioni, ed è possibile che in un’organizzazione di qualche complessità vi siano diverse persone, con diverse competenze, chiamate a ricoprire i suindicati ruoli.
Queste considerazioni indicano che l’individuazione della responsabilità penale passa, non di rado, attraverso un’accurata analisi delle diverse sfere di responsabilità gestionale e organizzativa all’interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano da un lato le categorie giuridiche, i modelli di agente, e dall’altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno.
Si tratta, in breve, di una ricognizione essenziale per un’imputazione che voglia essere personalizzata, in conformità ai principi che governano l’ordinamento penale, per evitare l’indiscriminata, quasi automatica attribuzione dell’illecito a diversi soggetti.
L’analisi dei ruoli e delle responsabilità di cui si parla viene tematizzata tradizionalmente entro la categoria giuridica della posizione di garanzia, espressione che esprime in modo condensato l’obbligo giuridico di impedire l’evento che fonda la responsabilità in ordine ai reati commissivi mediante omissione, ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p.
Questo classico inquadramento deve essere arricchito con alcune considerazioni aggiuntive.
Noi siamo abituati a pensare ai reati colposi come a illeciti omissivi. Questa visione è alimentata soprattutto dal fatto, oggetto di immediata e forte percezione intuitiva, che in tale categoria di reati si individua sempre qualcosa che è mancato, che è stato omesso.
Tale modo di vedere le cose non sempre corrisponde alla realtà. È sufficiente pensare, ad esempio, al preposto che consegni una scala rotta al lavoratore che conseguentemente cada, oppure al dirigente che invii un dipendente in un ambiente saturo di sostanze venefiche.
In tali situazioni è difficile negare la presenza di condotte attive rilevanti.
Tuttavia, anche in tali contingenze, chiaramente riconducibili alla causalità commissiva e, quindi, estranee alla disciplina di cui all’art. 40 cpv. c.p. e alla strumentale categoria giuridica del garante, si è soliti parlare ugualmente di posizione di garanzia.
Tale contingenza rende chiaro che quando nell’ambito di reati colposi commissivi si parla di “garante” per definire la sfera di responsabilità di un soggetto si usa il termine in un significato più ampio e diverso rispetto a quello connesso all’art. 40 cpv. c.p.
A tale riguardo, occorre considerare che la causalità condizionalistica (o dell’equivalenza causale) è caratterizzata dalla costitutiva, ontologica indifferenza per il ruolo qualitativo delle singole condizioni, che sono tutte equivalenti. Ne discende l’esigenza di arginare l’eccessiva forza espansiva dell’imputazione del fatto determinata dal condizionalismo.
Tale esigenza è alla base della causalità giuridica e si manifesta lungo il corso della plurisecolare storia del diritto penale moderno.
La necessità di limitare l’eccessiva ampiezza dell’imputazione oggettiva generata dal condizionalismo è alla base di note elaborazioni teoriche: la causalità adeguata, la causa efficiente, la causalità umana e la teoria del rischio. Tale istanza si rinviene altresì nel controverso art. 41 cpv. c.p.
L’esigenza cui tali teorie tentano di corrispondere è però sempre la stessa: tentare di limitare, separare le sfere di responsabilità, in modo tale da esprimere un ponderato giudizio sulla paternità dell’evento illecito.
Il contesto della sicurezza del lavoro fa emergere con particolare chiarezza la centralità dell’idea di rischio: tutto il sistema è conformato per governare l’immane rischio, gli indicibili pericoli, connessi al fatto che l’uomo si fa ingranaggio fragile di un apparato gravido di pericoli. Il rischio è una categoria unitaria che si declina concretamente in diverse forme, in relazione alle diverse situazioni lavorative.
Pertanto, esistono diverse aree di rischio e distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare. Soprattutto nei contesti lavorativi più complessi si è frequentemente in presenza di differenziate figure di soggetti investiti di ruoli gestionali autonomi.
Ciò suggerisce che in molti casi occorre configurare, già sul piano dell’imputazione oggettiva, distinte sfere di responsabilità gestionale, separando le une dalle altre. Esse conformano e limitano l’imputazione penale dell’evento al soggetto che viene ritenuto “gestore” del rischio. Allora, si può dire in breve, garante è il soggetto che gestisce il rischio.
L’acquisizione della veste di garante può aver luogo per effetto di una formale investitura, oppure a seguito dell’esercizio in concreto di poteri giuridici riferiti alle diverse figure.
Un’ulteriore indicazione normativa per individuare in concreto i diversi ruoli deriva dall’art. 28 D.Lgs. 81/2008, relativo alla valutazione dei rischi e al documento sulla sicurezza, che costituisce una sorta di statuto della sicurezza aziendale.
La valutazione riguarda solo “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori”. Dunque, non è possibile ricavare dal sistema prevenzionistico delineato dal Testo unico indicazioni direttamente vincolanti per ciò che riguarda l’obbligo di governare altri rischi presenti nell’organizzazione.
Il documento deve contenere la valutazione dei rischi per i lavoratori, l’individuazione di misure di prevenzione e protezione, l’individuazione delle procedure, nonché dei ruoli che vi devono provvedere, affidati a soggetti muniti di adeguate competenze e poteri. Si tratta quindi di una sorta di mappa dei poteri e delle responsabilità cui ognuno dovrebbe poter accedere per acquisire le informazioni pertinenti.
La sfera di responsabilità organizzativa e giuridica così delineata è, per così dire, originaria. Essa è generata dall’investitura formale o dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garanti.
Nell’individuazione del garante, soprattutto nelle istituzioni complesse, occorre partire dall’identificazione del rischio che si è concretizzato, del settore e del livello in cui si colloca il soggetto deputato al governo del rischio stesso, in relazione al ruolo che questi riveste.
Ad esempio, semplificando nel modo più banale, potrà accadere che rientri nella sfera di responsabilità del preposto l’incidente occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa; in quella del dirigente il sinistro riconducibile al dettaglio dell’organizzazione dell’attività lavorativa; in quella del datore di lavoro, invece, l’incidente derivante da scelte gestionali di fondo.
Naturalmente, il quadro proposto è molto semplificato e diviene non di rado assai più complesso nella realtà.
L’investitura del garante può essere anche derivata, in presenza di una delega specifica, che attribuisca poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa ben definiti a un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza (art. 16 D.Lgs. 81/2008).
La delega comporta il trasferimento dal delegante al delegato di poteri e responsabilità del delegante. Questi, per così dire, si libera di poteri e responsabilità che vengono assunti a titolo derivativo dal delegato. La delega, quindi, determina la riscrittura della mappa dei poteri e delle responsabilità.
Residua, in ogni caso, tra l’altro, come chiarisce l’art. 16 D.Lgs. 81/2008, un obbligo di vigilanza “alta”, che riguarda il corretto svolgimento delle proprie funzioni da parte del soggetto delegato.
La posizione di garanzia del datore di lavoro
Il datore di lavoro, titolare principale della posizione di garanzia, è tenuto a vigilare sul modo con cui il medico competente assolve il proprio ruolo.
Si tratta di un principio desumibile dall’art. 2087 c.c. e riaffermato a chiare lettere dell’art. 18, co. 3 bis, D.Lgs. 81/2008, laddove afferma che il datore di lavoro e il dirigente, oltre ad assolvere agli obblighi propri dettagliati nei precedenti commi dello stesso articolo, in più (“altresì”) sono tenuti a vigilare sull’adempimento degli obblighi propri dei preposti (art. 19), dei lavoratori (art. 20), dei progettisti (art. 22), dei fabbricanti e dei fornitori (art. 23), degli installatori (art. 24) e del medico competente (art. 25), restando peraltro ferma l’esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati in proprio dalle norme citate, allorché la mancata attuazione dei relativi obblighi “sia addebitabile unicamente agli stessi”, non essendo riscontrabile un difetto di vigilanza da parte del datore di lavoro e del dirigente.
L’art. 18, co. 3 bis riproduce il dovere di vigilanza e controllo, relativo al rispetto della normativa prevenzionale, che già compete al datore di lavoro ma anche al dirigente, nei limiti delle relative competenze funzionali, in applicazione della generalissima regola cautelare contenuta nell’art. 2087 c.c., la cui inosservanza può portare alla responsabilità del soggetto obbligato in ossequio al disposto, altrettanto generale, dell’art. 40, co. 2, c.p. (non impedire l’evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo).
Il datore di lavoro, per la sua posizione di garanzia, risponde dell’infortunio sia a titolo di colpa diretta – per non aver negligentemente impedito l’evento lesivo ed eliminato le condizioni di rischio – sia a titolo di colpa indiretta, per aver erroneamente invocato a sua discriminante la responsabilità altrui qualora le misure di prevenzione siano state inadeguate.
È nota la giurisprudenza secondo cui l’eventuale imprudenza del lavoratore non elide il nesso di causalità allorché l’incidente si verifichi a causa del lavoro svolto e per l’inadeguatezza delle misure di prevenzione.
È evidente, infatti, che la prospettazione di una causa di esenzione da colpa che si richiami alla condotta imprudente del lavoratore non rileva se chi la invoca versa in re illicita, per non avere negligentemente impedito l’evento lesivo dovuto dal fatto che il lavoratore ha operato in condizioni di rischio note all’azienda e non eliminate da chi rivestiva la posizione di garanzia.
Chi è responsabile della sicurezza del lavoro deve avere sensibilità tale da prevedere il comportamento altrui. In altri termini, l’errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori non è invocabile, non solo per la illiceità della propria condotta omissiva, ma anche per la mancata attività diretta ad evitare l’evento, imputabile a colpa altrui, quando si è nella possibilità di impedirlo.
È il c.d. “doppio aspetto della colpa”, secondo cui si risponde sia per colpa diretta sia per colpa indiretta, una volta che l’incidente dipende dal comportamento dell’agente che invochi a sua scriminante la responsabilità altrui.
È da osservare, peraltro, che la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l’incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche dai rischi che possono scaturire dalle sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo svolgimento dell’attività lavorativa.
È stato affermato in giurisprudenza che, in caso di infortunio sul lavoro dovuto all’assenza o all’inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale esclusiva può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondursi anche alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento.
La posizione di garanzia del medico competente
Secondo la dottrina prevalente, il ruolo assegnato al “medico competente” nell’ambito dell’organizzazione aziendale è di mera consulenza.
Ciò comporta l’anomalia della sottoposizione alla sanzione penale in caso di omessa collaborazione con il datore di lavoro nella valutazione dei rischi, ex art. 58 D.Lgs. 81/2008 (sanzione che invece non colpisce l’altra figura professionale del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, cui pure è attribuito il ruolo di consulente del datore di lavoro), poiché il “medico competente”, secondo questa tesi, non può obbligare il datore di lavoro a consultarlo né dispone di alcuna possibilità di iniziativa nella gestione del processo di valutazione del rischio.
Quanto alla prima questione, non vi è dubbio che il medico competente, quale che sia la sua posizione all’interno dell’azienda, non si collochi nella linea operativa aziendale, poiché, come emerge dalla definizione contenuta nell’art. 2, lett. h), D.Lgs. 81/2008, “collabora … con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi ed è nominato dallo stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria”.
Sembra dunque che il legislatore abbia valorizzato la funzione di consulenza del medico competente, soprattutto per ciò che riguarda il processo di valutazione dei rischi, piuttosto che la funzione tecnica del medico che provvede al rilascio dei giudizi di idoneità.
Pertanto, ci si sarebbe aspettati, coerentemente con la tradizionale costruzione della responsabilità del collaboratore del datore di lavoro, che per la funzione di consulente il medico competente non fosse esposto ad alcuna sanzione penale. Invece, l’art. 58 D.Lgs. 81/2008 punisce il medico competente con l’arresto fino a tre mesi e con l’ammenda da 400 a 1.600 euro per la violazione dell’art. 25, co. 1, lett. a), con riferimento esplicito alla mancata collaborazione con il datore di lavoro nella valutazione dei rischi.
È difficile capire a quale esigenza risponda questa scelta del legislatore. Si potrebbe pensare che la sanzione serva a responsabilizzare maggiormente il medico nella fase di valutazione dei rischi, ma si tratterebbe di una scelta legislativa assai rozza, dal momento che si tratta di professionisti per i quali non dovrebbe essere necessaria la prospettazione della sanzione penale per ottenere prestazioni professionali qualificate.
In realtà, il D.Lgs. 81/2008 ha realizzato uno strappo rispetto all’armonia della costruzione giuridica precedente, la quale prevedeva che in nessun caso potesse essere sanzionato penalmente il consulente del datore di lavoro, poiché soltanto su quest’ultimo grava l’obbligo di adempiere.
E così, dell’adempimento della valutazione dei rischi rispondeva il datore di lavoro e non il responsabile del servizio di prevenzione o il medico competente, i quali erano esonerati da responsabilità proprio in quanto consulenti del soggetto obbligato.
Questo schema di distribuzione delle responsabilità è stato mantenuto nel nuovo testo per la sicurezza del lavoro solo per quanto riguarda il responsabile del servizio di prevenzione, ma è stato abbandonato per il medico competente.
E così, il nuovo testo di legge finisce per colpire il medico competente per una responsabilità che non può essergli attribuita.
Infatti, la gestione dell’intero processo di valutazione del rischio sfugge al medico competente, il quale non può prendere l’iniziativa di dare corso alla valutazione dei rischi prescindendo dal datore di lavoro, né può obbligare il datore di lavoro a consultarlo.
Poiché vige il principio della personalità della responsabilità penale, ci si chiede quale obbligo abbia il medico competente in materia di valutazione dei rischi, compito che non è, come è noto, rivolto principalmente al medico competente ma al datore di lavoro.
Con la stessa logica distorta, e a maggior ragione, si sarebbe dovuto sanzionare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione aziendale in caso di omessa o insufficiente o errata valutazione dei rischi.
L’ambito di attribuzione di compiti consultivi al “medico competente” è stato oggetto di valutazione da parte della giurisprudenza con riferimento alla normativa previgente (la figura professionale in esame è stata introdotta, per la prima volta, dall’art. 33 d.P.R. 303/1956), e si è osservato che la competenza cui si riferiva la richiamata disposizione riguardava sia la valutazione delle condizioni di salute, avuto riguardo alle sostanze cui il lavoratore è esposto, sia l’attività di supporto al datore di lavoro/dirigente nell’individuazione dei rimedi, anche di quelli dettati dal progresso della tecnica, da adottare contro le sostanze tossiche, infettanti o nocive; si escludeva, invece, una posizione meramente esecutiva, attribuendosi al medico competente un ruolo propulsivo che determinava l’assunzione di un’autonoma posizione di garanzia in materia sanitaria.
A conclusioni analoghe si era pervenuti osservando che il medico aziendale è un collaboratore necessario del datore di lavoro, dotato di professionalità qualificata per coadiuvarlo nell’esercizio della sorveglianza sanitaria nei luoghi di lavoro, e aggiungendo che la sorveglianza sanitaria, pur costituendo un obbligo per il datore di lavoro ai fini della tutela dell’integrità psicofisica dei lavoratori, deve essere svolta attraverso la collaborazione professionale del medico aziendale.
La posizione di garanzia del responsabile del servizio di prevenzione
Il servizio di prevenzione e protezione, insieme al medico competente, svolge un ruolo di collaborazione con il datore di lavoro. Il servizio, previsto dall’art. 33 D.Lgs. 81/2008, deve essere composto da persone munite di specifiche capacità e requisiti professionali, adeguati ai bisogni dell’organizzazione, e ha importanti compiti, che consistono nell’individuazione e valutazione dei rischi, nonché nel proporre le misure preventive e protettive di cui all’art. 28 D.Lgs. 81/2008.
Questa figura svolge una delicata funzione di supporto informativo, valutativo e programmatico ma è priva di autonomia decisionale: essa, tuttavia, coopera in un contesto che vede coinvolti diversi soggetti, con distinti ruoli e competenze, un lavoro in equipe.
Alla luce di tali considerazioni si è affermato che i componenti del servizio di prevenzione e sicurezza non possono assumere la veste di garante poiché non sono destinatari in prima persona di obblighi sanzionati penalmente e svolgono un ruolo non operativo ma di mera consulenza.
L’assenza di sanzioni penali, tuttavia, non costituisce un argomento risolutivo per escludere il ruolo di garante. Ciò che importa è che i componenti del servizio di prevenzione e protezione siano destinatari di obblighi giuridici, e non può esservi dubbio che, con l’assunzione dell’incarico, essi assumano l’obbligo giuridico di svolgere diligentemente le funzioni che si sono viste.
D’altra parte, il ruolo svolto da costoro è parte inscindibile di una procedura complessa che sfocia nelle scelte operative sulla sicurezza compiute dal datore di lavoro. La loro attività può rilevare ai fini della spiegazione causale dell’evento illecito: si pensi al caso del servizio di prevenzione e protezione che manchi di informare il datore di lavoro di un rischio la cui conoscenza derivi da competenze specialistiche.
In situazioni del genere è ragionevole attribuire, in presenza di tutti i presupposti di legge e, in particolare, di una condotta colposa, la responsabilità dell’evento ai soggetti di cui parliamo. Una diversa soluzione rischierebbe di far gravare sul datore di lavoro una responsabilità che esula dalla sfera della sua competenza tecnico-scientifica.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, sebbene privo di capacità immediatamente operative sulla struttura aziendale, collabora con il datore di lavoro nell’individuazione e nella segnalazione dei fattori di rischio delle lavorazioni e nell’elaborazione delle procedure di sicurezza, di informazione e formazione dei lavoratori, come disposto dall’art. 33 D.Lgs. 81/2008.
Da ciò consegue che:
— il datore di lavoro è titolare di una posizione di garanzia in materia infortunistica, avendo l’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione;
— può sussistere una responsabilità concorrente del responsabile del servizio di prevenzione e protezione per il verificarsi di un infortunino, poiché, anche se privo di poteri decisionali e di spesa tali da consentire un diretto intervento per rimuovere le situazioni di rischio, egli è responsabile quando il fatto sia oggettivamente riconducibile a una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione.
Deve dunque ritenersi corretta la funzione consultiva attribuita al “medico competente” nell’ambito del rapporto di collaborazione che la legge gli attribuisce, ma un’eccessiva delimitazione di tale ruolo sarebbe sbagliata.
È evidente, avuto riguardo all’oggetto della valutazione dei rischi, che il datore di lavoro debba essere necessariamente coadiuvato da soggetti, come il medico competente, portatori di specifiche conoscenze professionali, per cui lo svolgimento di tali compiti da parte del medico competente comporta un’effettiva integrazione nel contesto aziendale.
(Autore: Edizioni giuridiche Simone)
(Fonte: La Legge per tutti)


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