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Indennità di mobilità anche a chi ha un altro lavoro


Ordine Informa

Il dipendente in mobilità che lavora presso un’altra azienda ha ugualmente diritto all’indennità dell’Inps.
Il dipendente collocato in mobilità può accettare, durante la pausa forzata, un altro lavoro presso un diverso datore di lavoro nonostante percepisca la relativa indennità da parte dell’Inps. È quanto chiarito dalla Cassazione in una recente sentenza [1].

Secondo la Corte, dunque, può conservare il diritto alla percezione dell’indennità di mobilità il lavoratore che mantenga un secondo impiego.

La vicenda

Un lavoratore part time collocato in mobilità era stato trovato a lavorare contemporaneamente, e sempre part time, presso un datore di lavoro diverso da quello in crisi. Ciò nonostante continuava a percepire l’indennità di mobilità [2].

L’INPS si oppose a tale richiesta sostenendo che l’indennità di mobilità, in quanto trattamento di disoccupazione, sarebbe strutturata su base giornaliera e, quindi, non potrebbe che essere corrisposta a fronte di una mancanza di lavoro protratta per l’intera giornata. In altri termini, secondo l’Istituto, l’indennità di mobilità spetterebbe al lavoratore disoccupato per l’intera giornata e non a quello che, tutto sommato, lavora part time presso un’azienda diversa da quella che l’ha collocato in mobilità.

Sì al doppio lavoro con l’indennità di mobilità

La Cassazione ha dato ragione al lavoratore, stabilendo che il dipendente in mobilità ha facoltà di svolgere attività di lavoro subordinato a tempo parziale o a tempo determinato, mantenendo l’iscrizione nella lista di mobilità.

Ne deriva che, se il lavoratore iscritto nelle liste di mobilità ha facoltà di svolgere un lavoro a tempo parziale, pur mantenendo l’iscrizione, allora non v’è ragione di distinguere tra ipotesi in cui il lavoratore abbia instaurato tale “secondo lavoro” prima o dopo l’iscrizione alle liste.

Il lavoratore in mobilità può comunque darsi da fare e trovarsi un nuovo lavoro, part time o a tempo determinato senza perciò rinunciare all’indennità dell’Inps proporzionata alla sua disoccupazione. 

La nuova disciplina sulla Naspi

L’interpretazione della Cassazione si conforma anche alla nuova legge che prevede, per la disoccupazione, la corresponsione della Naspi [3]. Essa prevede che il lavoratore titolare di due o più rapporti di lavoro subordinato a tempo parziale, che cessi da uno dei detti rapporti (per licenziamento o dimissioni per giusta causa o per risoluzione consensuale) ha diritto, ricorrendo tutti gli altri requisiti, a percepire la NASPI, in misura ridotta.

LA SENTENZA

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 3 novembre 2015 – 18 gennaio 2016, n. 705

Presidente Stile – Relatore Manna

Svolgimento del processo

Con sentenza del 15.12.09 la Corte d’appello di Brescia rigettava il gravame proposto dall’INPS contro la sentenza n. 338/08 del Tribunale di Bergamo che aveva condannato l’istituto a pagare a E.V. l’indennità di mobilità con riferimento alla retribuzione da lei percepita in virtù del rapporto a tempo parziale (per 20 ore settimanali) già intercorso con la IMEC S.p.A..

Ciò era stato deciso sebbene detta lavoratrice, collocata in mobilità in relazione ad uno (quello con la IMEC S.p.A.) dei due rapporti part time che aveva contemporaneamente instaurato il 17.3.03, avesse però proseguito l’altro rapporto lavorativo (sempre a tempo parziale, con la Farmacia Casati di Calusco d’Adda).

Per la cassazione della sentenza ricorre l’INPS affidandosi ad un solo motivo.

L’intimata ha depositato procura speciale rilasciata al proprio difensore, che ha poi partecipato alla discussione in udienza.

Motivi della decisione

L’unico motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 7 co. 12° e 8 commi 6° e 7° legge n. 223/91, nonché degli artt. 45 co. 3°, 73 co. 2°, r.d.l. n. 1827/35 e dell’art. 55 r.d. n. 2270/24, norme applicabili in forza del loro richiamo ad opera dell’art. 7 co. 12° legge n. 223/91; lamenta a riguardo l’INPS che E.V., collocata in mobilità in relazione ad un rapporto part time intercorso con la IMEC S.p.A., aveva proseguito con altro rapporto a tempo parziale che già aveva contemporaneamente in corso; pertanto – conclude l’istituto – contrariamente a quanto ritenuto dalla gravata pronuncia l’intimata non poteva percepire l’indennità di mobilità che, come tutti i trattamenti di disoccupazione, è strutturata su base giornaliera, viene corrisposta a fronte di una mancanza di lavoro protrattasi per l’intera giornata e non è frazionabile su base oraria (come invece avviene per le prestazioni intese a garantire il lavoratore dalla perdita del salario a causa di sospensioni temporanee dell’attività lavorativa).

2- Il ricorso – su cui non constano precedenti specifici di questa S.C. – è infondato.

Dispone l’art. 7 co. 12° legge n. 223/91: “L’indennità prevista dal presente articolo è regolata della normativa che disciplina l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria, in quanto applicabile, nonché dalle disposizioni di cui all’articolo 3 7 della legge 9 marzo 1989, n. 88.”.

I commi 6° e 7° dell’art. 8 della cit. legge n. 223/91 prevedono quanto segue: “Il lavoratore in mobilità ha facoltà di svolgere attività di lavoro subordinato a tempo parziale, ovvero a tempo determinato, mantenendo l’iscrizione nella lista.

Per le giornate di lavoro svolte ai sensi del comma 6, nonché per quelle dei periodi di prova di cui all’articolo 9, comma 7, i trattamenti e le indennità di cui agli artt. 7, 11, comma 2, e 16 sono sospesi. Tali giornate non sono computate ai fini della determinazione del periodo di durata dei predetti trattamenti fino al raggiungimento di un numero di giornate pari a quello dei giorni complessivi di spettanza del trattamento. “.

Il primo rilievo da valorizzare a conferma dell’esattezza della sentenza impugnata risiede in ciò: se il lavoratore iscritto nella lista di mobilità ha facoltà di svolgere lavoro a tempo parziale mantenendo la propria iscrizione, non v’è ragione alcuna (né teleologica né letterale) di distinguere fra l’ipotesi in cui abbia instaurato tale rapporto dopo l’iscrizione o prima, come avvenuto nel caso di specie, atteso che l’intimata aveva instaurato coevamente e parallelamente due rapporti part time (entrambi per 20 ore settimanali) presso due diversi datori di lavoro, prima di essere licenziata da uno di essi.

Obietta l’istituto ricorrente che poiché il rapporto a tempo parziale sopravvissuto copriva tutte le giornate lavorative (sebbene ad orario ridotto), l’indennità si sarebbe dovuta pagare in via frazionata, il che non era però consentito in quanto l’indennità di mobilità, essendo strutturata su base giornaliera, presupponeva una mancanza di lavoro protrattasi pur sempre per l’intera giornata, di guisa che non poteva essere erogata in via frazionata su base oraria; parte ricorrente invoca a sostegno della propria censura il co. 7° dell’art. 8 cit. legge n. 223/91, là dove si esprime in termini di “sospensione” dell’indennità di mobilità per le giornate lavorative svolte ai sensi del comma precedente, cioè a titolo di lavoro a termine o a tempo parziale.

L’obiezione dell’INPS non può accogliersi per plurime ragioni.

In primo luogo essa determinerebbe una palese ingiustificata disparità di trattamento fra il lavoratore a tempo parziale c.d. verticale (strutturato su alcune giornate di prestazione a tempo pieno e altre di assenza di ogni attività lavorativa) e quello impiegato min un part time c.d. orizzontale, consentendo la corresponsione dell’indennità di mobilità soltanto per le giornate di non lavoro del primo ed escludendo ogni trattamento economico a favore del secondo, pur in ipotesi d’un pari numero di ore settimanali dedotte in contratto, sol perché lo stesso numero di ore di lavoro è spalmato su tutti i giorni della settimana.

È evidente che tale soluzione ermeneutica contrasta con gli artt. 3 co. 1° e 35 commi 1 ° e 2° Cost., oltre che con la clausola 1, lett. a), dell’accordo quadro allegato alla direttiva 97/81, avente lo scopo di eliminare le discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo parziale e di migliorare la qualità del lavoro part time, obiettivo che risulta anche dal secondo comma del preambolo dell’accordo quadro medesimo e dall’undicesimo “considerando” della direttiva summenzionata.

Indubbiamente penalizzare il lavoro a tempo parziale di tipo c.d. orizzontale avrebbe un effetto disincentivante del ricorso ad una forma di occupazione vista con favore della normativa euro-unitaria.

E – com’è noto – è obbligo dell’interprete scegliere, fra più esegesi possibili, quella conforme al dettato costituzionale e all’ordinamento dell’Unione europea.

In secondo luogo, il rimando alle “giornate” e alla “sospensione” dell’indennità che si legge nel cit. art. 8 co. 7° non può nemmeno intendersi come imputato all’intero arco temporale del rapporto part time, ossia nel senso che per tutta la durata d’un contratto a tempo parziale non spetti il trattamento economico di mobilità, potendo il lavoratore solo conservare l’iscrizione nella relativa lista (ai sensi del comma precedente): si tratta di interpretazione impraticabile già da un punto di vista meramente letterale, atteso che il parlare di “giornate” e di “sospensione” dell’indennità oggettivamente evoca singoli limitati momenti di non spettanza del trattamento all’interno d’un più ampio arco temporale di riferimento.

Si aggiunga – ancora – la necessità di rispettare, sotto un profilo sistematico, una doverosa simmetria tra la flessibilità dei tipi contrattuali di lavoro (soprattutto dopo il d.lgs. n. 276/03) e le modalità di pagamento dei trattamenti previdenziali, non potendosi predicare la massima elasticità per i primi e la totale rigidità per i secondi.

E, non a caso, il cit. art. 7 co. 12° legge n. 223/91 stabilisce che l’indennità di mobilità è regolata della normativa che disciplina l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria “in quanto applicabile”, in tal modo rimarcando che le sue modalità di erogazione devono pur sempre confrontarsi con le peculiari esigenze della mobilità disciplinata dalla stessa legge n. 223/91: fra di esse vi è quella di renderla compatibile anche con il lavoro a tempo parziale (come si desume dal summenzionato co. 6° dell’art. 8 cit.).

Da ultimo, è appena il caso di segnalare che l’assunto dell’INPS appare poco coerente con un’interpretazione storico-evolutiva alla luce del d.lgs. n. 22/2015 (pur ovviamente inapplicabile nel caso in esame) sulla c.d. NASPI (Nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego, sussidio di disoccupazione universale che dal P.5.15. sostituisce l’assegno unico di disoccupazione introdotto dalla cd. riforma Fornero).

Infatti, l’art. 9 co. 3° di tale d.lgs. prevede che il lavoratore titolare di due o più rapporti di lavoro subordinato a tempo parziale che cessi da uno dei detti rapporti a seguito di licenziamento, dimissioni per giusta causa, o di risoluzione consensuale intervenuta nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 legge n. 604/66 (come modificato dall’art. 1 co. 40° legge n. 92/12), e il cui reddito sia inferiore al limite utile ai fini della conservazione dello stato di disoccupazione, ha diritto, ricorrendo tutti gli altri requisiti, di percepire la NASPI in misura ridotta nei termini di cui al successivo art. 10 (a condizione che, entro trenta giorni dalla domanda di prestazione, comunichi all’INPS il reddito annuo previsto).

Ciò testimonia d’un progressivo favor legislativo verso forme di sostegno commisurate al differenziale economico tra sussidio di disoccupazione e reddito percepito, piuttosto che di mantenimento di sussidi commisurati a singole unità di tempo (giorni, settimane, mesi) di inattività.

In altre parole, alla logica binaria del “tutto o niente” in relazione ad una prescelta unità di tempo sostituisce quella quantitativa dell’aiuto parametrato al reddito percepito, soluzione che a sua volta risulta più prossima al risultato complessivo cui sono sostanzialmente pervenuti, nella vicenda in oggetto, i giudici di merito.

3- In conclusione il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza, spese liquidate tenuto conto del rilievo che parte intimata si è limitata a depositare procura speciale rilasciata al proprio difensore e a partecipare alla discussione in udienza.

P.Q.M.

La Corte

rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 1.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

[1] Cass. sent. n. 705/16 del 18.01.2016.

[2] Stabilita ai sensi della legge n. 223/1991.

[3] Art. 9, comma 3, del d.lgs. n. 22/15.

(Fonte: La Legge per tutti) 


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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