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Così è se vi pare, ovvero l’arte della bugia funzionale


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Siamo sinceri: qualche volta (anzi, abbastanza spesso) è più brutale e aggressiva una verità sgradevole sbattuta in faccia o, peggio, esibita in pubblico, di una bugia utilizzata come comportamento strategico. E in effetti, tra le varie tipologie di bugie, quella “diffamatoria” occupa una posizione certamente non dominante: molto più spesso i “diffamatori” utilizzano aspetti della realtà collegati a fattori strettamente personali che i “diffamati” avrebbero preferito non fossero mai rivelati.
Ma cos’è esattamente una bugia? Tecnicamente, dal punto di vista della comunicazione, possiamo definirla come la proiezione verbale di una immagine della realtà, consapevolmente alterata al fine di condizionare la risposta cognitiva, emotiva e comportamentale degli altri. Tale immagine può essere completamente inventata, oppure elaborata attraverso i ben noti processi di generalizzazione, cancellazione e distorsione dei fatti. Questa definizione ci aiuta a distinguere tra comportamenti teatrali, come quello del bambino che brandisce un pezzo di legno fingendo che sia una spada, e comportamenti ingannevoli, come quello degli adulti che vogliono far sì che gli altri credano vero ciò che essi sanno benissimo essere falso. Il bambino non pretende di convincere nessuno (anche lui sa bene che ha in mano un pezzo di legno), ma desidera condividere una sua rappresentazione mentale che, a seconda dei casi, lo diverte, lo commuove, lo emoziona: quindi, non sta mentendo. La bugia è il livello più evoluto delle manifestazioni ingannevoli presenti in tutto il mondo animale. Il primo livello è quello del comportamento mimetico, che è stato programmato geneticamente in alcune specie per determinare automaticamente una risposta a determinate caratteristiche ambientali: non c’è in questo caso nulla di cognitivo o intenzionale, anche se sempre di inganno si tratta.
A un livello superiore di complessità e di impegno delle facoltà cognitive troviamo comportamenti, anche in questo caso geneticamente programmati, che scattano quando l’animale riconosce il verificarsi di una particolare situazione: esempio tipico è il fingersi morto in caso di pericolo, comune a molte specie anche inferiori. Al terzo livello troviamo comportamenti ingannevoli di natura ontogenetica, sviluppatisi cioè con l’apprendi-mento; un esempio riportato in letteratura è quello di un cane che finge di voler uscire per far alzare il padrone e impossessarsi così della sua poltrona preferita.
Il livello più evoluto è quello raggiunto dall’uomo, per il quale la menzogna è un’azione comunicativa complessa che implica un notevole impegno mentale, emotivo, relazionale e sociale. È anche un’azione frequente tanto che filosofi e studiosi delle scienze umane hanno approfondito in modo sistematico l’ambito della menzogna: da Aristotele e Platone ad Agostino d’Ippona e Tommaso d’Aquino, a Niccolò Machiavelli, a Thomas Hobbes fino agli studiosi di oggi. È un campo che da sempre ha appassionato la mente umana. Da secoli ci domandiamo perché, conoscendo la verità, diciamo il falso.
Dal punto di vista etico prevale in assoluto il rifiuto della bugia. Nella Metafisica, Aristotele afferma: «Il falso e il vero non sono nelle cose, come se il bene fosse vero e il male senz’altro falso, ma nel pensiero». Nell’Etica Nicomachea la distinzione è ancora più netta: «Di per sé la bugia è turpe e biasimevole, mentre la verità è bella e lodevole». La sincerità, per Aristotele, è quella virtù che consiste nella disposizione a essere veridici su se stessi, ossia a sembrare quello che si è: l’uomo veridico è «autentico com’è, sincero sia nella vita, sia nelle parole».
Nelle sacre scritture la menzogna è rifiutata senza discussioni («non renderai falsa testimonianza»), anche se la questione si presenta più sfumata nel pensiero di Agostino d’Ippo-na, che dedicò ben due opere al tema (il De mendacio e il Contra mendacium, rispettivamente del 395 d.C. e 420 d.C.). Agostino propone una classificazione delle menzogne, in ordine di gravità decrescente: 1. la menzogna religiosa (per convertire qualcuno); 2. la menzogna maligna attiva (per fare danno a qualcuno senza giovare a nessuno); 3. la menzogna maligna passiva (per godere dell’inganno e trarne giovamento); 4. la menzogna pura (per il solo piacere di ingannare); 5. la menzogna motivata dal desiderio di piacere (menzogna sociale, per ravvivare la conversazione); 6. la menzogna benevola innocente (per beneficiare qualcuno nei beni materiali senza danneggiare nessuno); 7. la menzogna necessaria per salvare la vita a qualcuno (ad esempio sottraendolo dalle mani di un assassino); 8. la menzogna necessaria per la purezza (per salvare la castità). In questi otto generi di bugie, «chi mente pecca tanto meno quanto più sale verso l’ottavo livello e tanto maggiormente quanto più scende verso il primo».
Secondo Kant non si ha mai, in nessun caso e per nessun motivo, il diritto di mentire, cioè di limitare soggettivamente l’accessibilità della conoscenza; questa tesi è giustificata da ragioni che concernono il rapporto della conoscenza con il diritto, «poiché la verità non è un possesso sul quale si possa concedere il diritto all’uno e ricusarlo all’altro; ma specialmente perché il dovere della veridicità non fa distinzione fra persone verso cui sia possibile avere questo dovere e persone nei cui confronti sia possibile distaccarsene, bensì è un dovere incondizionato, che vale in tutte le situazioni». Neanche il mentire a fin di bene può essere giustificato, poiché è impossibile essere totalmente sicuri che ciò che scaturirà dalla bugia sarà buono: ciò implicherebbe infatti una infallibile capacità di previsione (in contrasto peraltro con il moderno “principio di razionalità limitata”).
Tuttavia è fin troppo facile trovare esempi in cui la bugia, al di là di qualunque riflessione filosofica, è senz’altro “buona”: pensiamo a colui che si autoaccusa di un atto che non ha commesso per evitare ritorsioni su numerose altre persone; o immaginiamo di mentire a un sicario che cerca un innocente per ucciderlo. Difficile trovare riprovevoli queste “menzogne”. E se in particolare la prima può ancora essere discussa sul piano dell’opportunità, data l’evidente difficoltà teorica di un confronto tra perdite di vite umane basato sulla quantità, la seconda è non solo moralmente lecita, ma addirittura in tale circostanza l’opposto (dire cioè la “verità”) verrebbe considerato un comportamento da vigliacchi. Con questi argomenti il filosofo francese Benjamin Constant contestava la tesi Kantiana; e non c’è dubbio che, aperto un varco nel principio assoluto di verità, tutto diventa discutibile, tanto da far affermare a Elias Canetti (Nobel per la letteratura 1981): «Odio l’eterna disponibilità alla verità, la verità per abitudine, la verità per dovere. La verità dev’essere un temporale: quando ha purificato l’aria, se ne vada (…) Non la si foraggi, non la si misuri; la si lasci crescere nella sua terribile pace».
D’altra parte la bugia “utilitaristica”, giustificata cioè dal fine, è stata ampiamente teorizzata; molto prima di Machiavelli, nella Repubblica di Platone, Socrate, sollecitato da Glaucone, sostiene che i governanti hanno il diritto di dire il falso allo scopo di «ingannare nemici o concittadini nell’ interesse dello Stato». Platone sosteneva anche che il bugiardo è superiore a chi dice sempre la verità, poiché il primo ha sempre una doppia opzione.
Su questo punto concorda Oscar Wilde ne L’importanza di chiamarsi Ernesto: «Ciò che la gente chiama falsità è semplicemente un metodo grazie al quale possiamo moltiplicare le nostre personalità». Il corrispondente da Washington dell’Evening Standard Jeremy Campbell ha scritto un interessante libro (La grande bugia, Garzanti, 2002) in cui sostiene che «l’umanità non avrebbe mai potuto sopportare l’estenuante cammino che l’ha portata alla sua attuale posizione privilegiata sulla scala evolutiva se avesse seguito una dieta scarna ed esigua come quella rappresentata dalla verità».
Se non vogliamo mentire a noi stessi dobbiamo riconoscere che delle bugie – utilitaristiche, cortesi o pietose che siano – non possiamo fare a meno. Sono loro, infatti, che ci permettono di “sopravvivere” in situazioni particolarmente difficili o imbarazzanti. Le bugie stanno alla base della società e delle relazioni sociali. Cosa sono, in fondo, le “buone maniere”? Se incontriamo un conoscente e lo troviamo improvvisamente invecchiato, stanco, con le borse sotto gli occhi e una pancia prominente, è corretto dirgli «stai una schifezza», o non è più opportuno il tradizionale «ti trovo bene»? L’uso di questo tipo di “bugia sociale” è considerato di fatto segno di buona educazione e di sensibilità verso gli altri.
Le bugie sono utilizzate anche a fini educativi, per rinforzare attitudini e comportamenti virtuosi (come ad esempio le lodi ai primi passi, ai primi accenni di discorso, ai primi scarabocchi dei bambini piccoli) o per reprimere («…se non fai il bravo arriva l’uomo nero!»).
In altri casi le bugie costituiscono distorsioni, esagerazioni o falsificazioni della realtà a fini di impression management, cioè o per nascondere lati della nostra personalità che preferiamo non far trapelare, o per apparire più interessanti e attraenti non solo agli occhi degli altri ma in qualche caso anche ai nostri. Tutti desiderano in qualche misura proiettare un’immagine di sé socialmente desiderabile: per questo spesso i sondaggi di opinione non funzionano, neanche quando sono anonimi, poiché il primo destinatario dell’inganno è il bugiardo stesso.
La bugia può avere scopi di difesa rispetto a una potenziale sanzione per un comportamento non conforme a canoni etici e/o socialmente accettabili, come quando ci si costruisce un alibi per sottrarsi a una pena o, più semplicemente, per nascondere al partner un tradimento.
In alcuni casi la bugia è totalmente inconsapevole, è rivolta a noi stessi prima che agli altri, e consiste nel negare o rappresentare in modo alterato realtà troppo brutali o dolorose per essere sopportate e che quindi la nostra mente cancella o seppellisce nell’inconscio. Un fenomeno dello stesso tipo avviene spesso anche a livello di gruppi sociali che a volte (in genere sotto l’influenza di un leader) mettono in atto meccanismi di selezione delle informazioni, ignorando quelle potenzialmente destabilizzanti. Si tratta di un autoinganno, con il quale accettiamo un calo dell’attenzione in cambio del sollievo dall’ansia e dallo stress. Tuttavia, ignorare i problemi li lascia irrisolti.
Esiste poi la vastissima casistica delle operazioni di framing, che non costituiscono vere e proprie bugie ma che, tramite accorte omissioni e/o opportune enfasi su particolari dettagli, cercano di influenzare la disposizione o l’inclinazione mentale con cui un individuo esamina un fatto o un messaggio. Il concetto è attribuito al lavoro di Erving Goffman, e in particolare al suo Frame analysis: An essay on the organization of experience del 1974. Goffman usava questo termine per definire «schemi di interpretazione» che permettono a individui o gruppi di «collocare, percepire, identificare e classificare» eventi e fatti, in tal modo strutturando il significato, organizzando le esperienze, guidando le azioni. Il framing è usato con disinvoltura dai media e soprattutto in politica. Gli specialisti di queste tecniche sono spesso definiti spin doctor (il termine viene dal baseball: si definisce spin l’effetto che la palla acquista quando viene colpita di taglio, producendo una traiettoria curva e non rettilinea in grado di mettere in difficoltà il battitore) e si presentano di solito come consiglieri per la comunicazione, capi ufficio stampa, portavoce o campaign manager; il loro compito è quello di formulare messaggi in grado di mostrare il lato migliore di qualsiasi situazione in cui siano implicati i loro clienti, fornendo alla pubblica opinione versioni, non tanto false quanto “aggiustate nella forma”, di eventi e notizie.
Forse le bugie più riprovevoli sono quelle volte a mettere in cattiva luce altre persone, sia per trarne vantaggi personali (ad esempio screditando un potenziale rivale) sia, peggio ancora, per pura malvagità e per il semplice gusto della diffamazione e dell’inganno. Ma esistono anche “bugie etiche”, quando esse abbiano il fine di proteggere qualcuno, risparmiandolo da inutili dolori e dispiaceri, o magari salvaguardando la sua incolumità da potenziali minacce.
Possiamo concludere che, tranne alcuni casi perversi, le bugie sono in grado di svolgere una importante funzione sul piano individuale e sociale. E se occorre evitare che la menzogna diventi una strategia e uno stile di vita (con il rischio di innescare un circolo perverso dal quale non è più possibile uscire: menzogne sempre più grandi e gravi, usate per coprire le precedenti) occorre anche tener presente che per la sincerità e l’inganno vale quanto sosteneva Gregory Bateson, secondo cui «esiste sempre un valore ottimale oltre il quale ogni cosa diviene tossica: l’ossigeno, il sonno, la psicoterapia e la filosofia. Qualsiasi variabile biologica ha bisogno di equilibrio». A tutti noi spetta il compito di trovare, tra i due estremi della sincerità assoluta e della bugia perpetua, il punto di equilibrio che ci salva dallo stress e ci assicura, oltre al benessere psicologico, il mantenimento di un buon sistema relazionale.


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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