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Quando il lavoro part-time diventa a tempo pieno


Ordine Informa

Contratto di lavoro a tempo parziale e sua trasformazione in full-time: il risarcimento al dipendente.
Mentre il Governo si appresta a regolamentare il part-time, ecco alcuni orientamenti della giurisprudenza su tale tipo di contratto e sull’eventuale conversione in lavoro a tempo pieno e indeterminato in caso di suo illegittimo impiego.
Secondo la Corte di Giustizia Europea (1) è possibile trasformare il contratto di lavoro a tempo parziale in un contratto a tempo pieno anche senza bisogno del consenso del lavoratore. È possibile anche il contrario (ossia trasformare il contratto da tempo pieno a parziale).
In entrambi i casi, però, salvo che non vi siano ulteriori e principali motivazioni aziendali (vedi, per esempio, una ristrutturazione, una crisi, ecc.), l’eventuale opposizione del lavoratore alla trasformazione non può essere l’unico motivo del suo licenziamento. In buona sostanza, solo oggettive e insuperabili ragioni potrebbero consentire al datore di operare detta trasformazione anche in spregio della volontà del lavoratore e, in caso di suo rifiuto, licenziarlo.
Certamente, la riduzione dell’orario di lavoro è una situazione più delicata rispetto a quella, parallela e opposto, dell’aumento. Così, secondo la Cassazione [2], il datore di lavoro non può unilateralmente e nonostante un accordo sindacale, trasformare un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato in uno part-time, o ridurre, comunque, la durata del part-time, senza un accordo scritto con il lavoratore (3).
La volontà del lavoratore, quindi, oltre ad essere genuina e libera, va espressa per iscritto.
Il lavoro supplementare
Che succede, però, se il datore, nonostante abbia formalmente assunto il lavoratore con un contratto part-time (oppure abbia trasformato il precedente contratto full-time in un part-time), ma poi, nei fatti, il dipendente osservi lo stesso orario di lavoro di uno a tempo pieno? Di certo, il ricorso al lavoro supplementare, se effettuato occasionalmente, è lecito. Al contrario, diventa illecito se l’aumento delle ore lavorative venga effettuato per lungo tempo e in modo continuativo: insomma, tutte le volte che ciò non sia altro che un espediente per ottenere, da un lavoratore part-time, le stesse prestazioni di uno full-time. In casi come questi, secondo la Cassazione [4], l’uso continuo di lavoro supplementare in un contratto a tempo parziale, risultante dalle buste paga, comporta la trasformazione del contratto in uno a tempo pieno.
Così facendo, infatti, le parti, pur senza alcuna formalizzazione scritta, hanno dimostrato che la loro reale volontà era di concludere un contratto a tempo pieno o, comunque, hanno accettato con “fatti concludenti” di trasformare quanto inizialmente pattuito.
In sintesi, per aversi la trasformazione del contratto part-time in uno full-time, è necessario che:
– le parti, anche senza metterlo per iscritto, abbiano ripetutamente osservato un orario di lavoro tipico del contratto full-time;
– che ciò non sia stato determinato da una specifica esigenza organizzativa dell’impresa, idonea a giustificare lo svolgimento di ore in più rispetto a quelle originariamente concordate e che sia conforme alle previsioni della contrattazione collettiva.
Infatti, la legge [5] stabilisce che il datore di lavoro, nei contratti part time orizzontali (ossia quando la riduzione di orario rispetto al tempo pieno viene effettuata riducendo l’orario normale giornaliero di lavoro), può richiedere lo svolgimento di prestazioni supplementari, tuttavia, è il contratto collettivo che deve prevederne la misura e le causali di utilizzo.
Perciò, in assenza di queste indicazioni, gli stessi limiti devono essere pattuiti nel contratto individuale di lavoro. Senza l’accordo con il dipendente, la prestazione aggiuntiva “a comando”, ossia imposta unilateralmente dall’azienda è illegittima [6].
[1] C. Giust UE sent. del 15.10.2014 (C-221/13).
[2] Cass. sent. n. 16089/2014.
[3] Per come previsto dagli artt. 2 e 5 del decreto legislativo 61/2000.
[4] Cass. sent. n. 11905/2011.
[5] Art. 3 del decreto legislativo 61/2000.
[6] Cass. sent. n. 23600/2014.

(Fonte: La Legge per tutti)

Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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