Skip to main content

Post offensivo su Facebook contro l’azienda: licenziamento in tronco


Ordine Informa

Occhio agli sfoghi contro l’azienda presso cui si è assunti: basta un post offensivo su Facebook per essere licenziati in tronco, senza neanche il diritto al preavviso. E questo perché, in presenza di tali comportamenti irrispettosi verso il proprio lavoro, legittimamente il datore può perdere le staffe e, insieme ad esse, la fiducia che deve essere alla base del rapporto tra le parti. La mancanza di fedeltà del lavoratore, insomma, recide il legame con l’azienda e, pertanto, giustifica il licenziamento per giusta causa. A dirlo è una recente ordinanza del Tribunale di Milano [1].Diffamazione e ingiuria: legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore dipendente che parla male su Facebook dell’azienda presso cui è assunto.
Scatta, dunque, il licenziamento per chi parla male del proprio ambiente lavorativo o dei prodotti della azienda sui social network, facendone cattiva pubblicità: Facebook è come una piazza e il commento offensivo o le fotografie del posto dove si opera raggiungono un numero potenzialmente illimitato di persone. Le cose non cambiano neanche se il profilo è “chiuso” e ristretto solo alla propria cerchia di amici: tutti coloro che accedono al profilo dell’incolpato si rendono conto a chi vanno riferiti i giudizi, che dunque ledono l’immagine dell’impresa. Non ci sono, insomma, giustificazioni che tengano per chi usa il social come sfogo personale. I social network giuridicamente sono un servizio della società dell’informazione[2], non un diario privato.
Peraltro, in presenza dei presupposti penali (lesione all’immagine dell’impresa), potrebbe anche scattare il reato di diffamazione aggravata, anche se la vittima non è indicata col suo nome e cognome, essendo sufficiente che sia identificabile ovvero individuabile anche da una cerchia ristretta di “amici” o appartenenti a una community. Per i giudici dellaCassazione non basta denunciare ex post di essere stati vittime di un accesso abusivo a un sistema informatico per escludere la propria responsabilità penale: è necessaria, anche in questo caso, la prova certa e rigorosa di non aver mai scritto quel contenuto.
Ancora una volta, la prova dell’illecito disciplinare può essere la “cimice” sul computer del lavoratore. Va bene che il Job Act ha aperto i controlli a distanza sui Pc dei dipendenti, ma all’azienda basta spiare il profilo del proprio dipendente per procurarsi le prove del comportamento contrario al rapporto di lavoro. Sia che a farlo sia un collega, che un terzo, o anche un profilo falso costruito ad arte dall’imprenditore e con le sembianze di una bella ragazza (leggi: “Dipendenti su Facebook: sì ai controlli occulti dell’azienda”).
Non rileva, dunque, il fatto che le foto o i post siano stati pubblicati in un momento in cui il dipendente era in pausa o non era al lavoro: qui non conta il “tempo rubato” alla busta paga, quanto il comportamento in sé, nella sua oggettiva gravità. Le immagini postate sono visibili a tutti: gli amici dell’autore delle foto capiscono che le contumelie sono dirette all’azienda in cui lavora la persona che conoscono.
Occhio poi al proprio contratto collettivo nazionale di lavoro (ccnl) che può essere la vera ragione per cui il dipendente perde il posto in tronco: non raramente in essi si stabilisce la possibilità del licenziamento per giusta causa tutte le volte in cui il lavoratore provoca all’azienda un “grave nocumento morale”. L’offesa è proprio l’esempio tipico.
LA SENTENZA
LA MASSIMA
Deve ritenersi sussistente la giusta causa di licenziamento inflitto al dipendente che sul suo profilo di un noto social network pubblica fotografie scattate durante l’orario di lavoro corredate da giudizi offensivi nei confronti del datore dovendosi ritenere che, essendo dette immagini, accessibili a chiunque e, senz’altro, a tutta la cerchia delle conoscenze più o meno strette del lavoratore, ciascuno era perfettamente in grado di sapere che l’espressione di discredito era riferita alla società datrice, dovendosi escludere che possa trovare applicazione la tutela di cui all’articolo 18, comma 4, della legge 300/70, così come riformato dalla legge Fornero, che vale nel in cui il licenziamento sia stato intimato per un fatto che rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.
[1] Trib. Milano, ord. dell’1.08.2015.
[2] Ai sensi dell’art.1 paragrafo 2 direttiva 98/48 Cw.
(Fonte: La Legge per tutti)


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
X