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Lite sul lavoro tra dipendenti: licenziamento solo per rissa


Ordine Informa

La violenza fisica deve essere di particolare gravità per giustificare il licenziamento del dipendente violento e provocatore.
La semplice lite tra due colleghi sul posto di lavoro, se non sfociata in un aperto contrasto fisico, senza arrecare pregiudizio alla produzione o ai beni dell’azienda, non può essere causa di licenziamento. Neanche se la provocazione è provenuta chiaramente da uno dei due. È quanto chiarito dalla Cassazione con una recente sentenza [1]. Nel caso di specie il fatto era stato costituito da una spallata rivolta da un dipendente nei confronti di un altro.
La Corte ammonisce: la valutazione circa la possibilità di licenziamento deve essere fatta tenendo conto della gravità del singolo caso.
Spesso è lo stesso contratto collettivo a sanzionare, con il licenziamento, infrazioni connotate da livelli di gravità particolarmente elevati, come ad esempio la rissa in azienda (che comporta lo scontro fra due opposte fazioni con il ricorso a vie di fatto) o il danneggiamento volontario del materiale dell’azienda (si pensi al dipendente che rompa la tastiera del computer del collega).
Deve sempre sussistere una proporzione tra condotta e sanzione adottata nei confronti del lavoratore: la violenza deve essere particolare peso e importanza. Il semplice contatto fisico, sebbene poco urbano, come una spallata provocatrice, non può considerarsi di per sé violento, specie se non abbia avuto alcun ulteriore strascico. Impossibile allora parlare di “rissa”, spiegano i giudici.
Allo stesso tempo, vanno valutati i precedenti del lavoratore: se quest’ultimo, negli anni, non ha mai manifestato condotte tali da comportare sanzioni disciplinari, non può, per un singolo episodio non particolarmente grave, essere licenziato.
LA SENTENZA
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 2 dicembre 2015 – 12 febbraio 2016, n. 2830
Presidente Manna – Relatore Della Torre
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 6956/2012, depositata il 27 settembre 2012, la Corte di appello di R. respingeva l’appello proposto da SKY Italia s.r.l. e confermava la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale di Roma, in accoglimento del ricorso di P.C., aveva dichiarato la illegittimità dei licenziamento Irrogato al medesimo per giusta causa, ai sensi dell’art. 48, lettera B), del CCNL Telecomunicazioni, che sanziona con la risoluzione in tronco “la rissa nel luogo di lavoro, all’interno dei reparti operativi”.
La Corte distrettuale affermava di condividere la valutazione di carenza di
proporzionalità tra condotta e sanzione posta dal primo giudice a fondamento della propria decisione. In particolare, osservava come, sulla base della lettera di contestazione e della relazione di servizio di una guardia giurata, presente al fatto, il contatto fisico tra il C. ed il R. dovesse ritenersi limitato- ad una “spallata”, neppure violenta e comunque priva di qualsiasi ulteriore strascico; mentre la frase “ma che cos’ha da guardarmi?”, che veniva imputato al. C. di avere ripetutamente rivolto al R., non aveva, al di là-del topo, un contenuto minaccioso, non prospettando al soggetto passivo un qualche pericolo di male ingiusto.
Ciò posto, era da escludere, ad avviso della Corte (come già dei Tribunale), che l’episodio potesse non solo essere ricondotto alla nozione penalistica di rissa, di cui non ricorrevano gli elementi strutturali, ma anche che fosse stato connotato da una violenza tale da potervi essere assimilato: non era, pertanto, configurabile nella specie né
l’infrazione contestata, né quella di cui all’art. 48, lettera A), CCNL Telecomunicazioni (e
cioè la “rissa nel luogo di lavoro, fuori dal reparti operativi”), sanzionabile con il licenziamento con preavviso.
La Corte osservava, inoltre, come il C., nel corso di un rapporto durato ben dieci anni, non avesse mai ricevuto sanzioni disciplinari e come le mansioni assegnategli al tempo del recesso, che erano quelle di “assistente gestionale e operativo” nell’ambito
dei Canale Viaggi, con inquadramento nel livello 50 dei CCNL, non fossero connotate da
uri particolare rilievo dell’elemento fiduciario.
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza SKY Italia s.r.l., affidandosi a tre motivi, illustrati da memoria; il C. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente denuncia l’omesso esame degli elementi comprovanti sia la gravità della condotta c9ntestata al ‘C. che la- proporzionalità dei provvedimento espulsivo (art. 360 n. 5 c.p.c.): la Corte avrebbe, infatti, omesso di valutare in concreto le modalità dell’evento, ricostruendolo sulla base della sola relazione della guardia Vignoli, senza dare ingresso alle prove testimoniali; avrebbe inoltre trascurato di considerare le mansioni svolte dal lavoratore nonché di esaminare gli allegati e ripetuti episodi di tensione con i colleghi, dovuti al carattere puntiglioso ed iracondo del dipendente.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. e dell’art. 48 dei CCNL per i dipendenti delle Imprese di Telecomunicazioni (art. 360 n. 3 c.p.c.), sul rilievo che la nozione di rissa contemplata dalla contrattazione collettiva doveva essere interpretata come inclusiva anche dell’ipotesi di aggressione di un solo lavoratore nei confronti di altro soggetto, ben potendo tale evento ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario: le prove, ove ammesse, avrebbero condotto a sussumere il fatto nella previsione dell’art. 48 ‘lett. B).
‘Con il terzo motivo là ricorrente denuncia omessa pronuncia in ordine alla domanda formulata, in via gradata, anche in grado di appello, di conversione dell’intimato atto espulsivo “in recesso con preavviso ex art. 2118 c.c. e 3 della I. n. 604/66”, alla stregua dell’art. 48 lett. A) dei CCNL Telecomunicazioni.
II primo motivo risulta inammissibile.
Esso, infatti, nella sua formulazione, non tiene conto della modifica {introdotta all’art. 360 n. 5 c.p.c. dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella I. 7­agosto 2012, n. 134.
Secondo quanto dispone l’art. 54, comma 3, del citato decreto tale modifica si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione (12 agosto 2012) e, pertanto, trova applicazione anche alla sentenza oggetto di impugnazione con il presente ricorso, depositata il 27 settembre 2012.
In particolare, I ricorrente non ha indicato il fatto storico, il cui esame sia stato omesso;
il dato, testuale o extra testuale, da cui esso risulti esistente; il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti; la sua decisività e cioè la sua attitudine a determinare un esito diverso della controversia: elementi tutti già desumibili, mediante un’operazione di piana deduzione, dall’impianto normativo dei nuovo vizio “motivazionale” e che costituiscono le condizioni perché esso possa trovare correttamente ingresso nel giudizio di cassazione.
Si richiama, al riguardo, ed anche per la diversa portata, del sindacato di legittimità sulla motivazione, le sentenze delle Sezioni Unite 7 aprile 2014, n. 8053 e n. 8054, nonché, tra le successive conformi, Caos. 27 novembre 2014, n. 25216.
Il secondo e il terzo motivo di ricorso, implicando l’esame di questioni connesse, possono essere congiuntamente esaminati.
Entrambi sono infondati.
Nel caso di specie- la Corte territoriale ha invero fatto esatta applicazione dei principio di diritto di cui a Cass. 16 marzo 2004, n. 5372, per il quale “l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile alla sola condizione che tale grave inadempimento o tale grave comportamento, con apprezzamento di fatto dei giudice di merito non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C. aveva ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento nel comportamento dei lavoratore che aveva percosso un superiore, pur se l’art. 25 dei CCNL per i metalmeccanici dell’ industria privata prevedeva come giusta causa di licenziamento la rissa). Conformè Cass. 18 febbraio 2011, n. 4060.
Ed invero il giudice di appello, con motivazione adeguata, ha, in primo luogo, superato i confini della nozione penalistica di rissa, ristretta dall’elemento oggettivo dei numero minimo dei partecipanti e del carattere violento della contesa, tale da costituire pericolo per l’incolumità pubblica, per adottarne {anche sulla scorta di Cass. 28 novembre 1998, n. 12132) una più aderente, da un lato, al significato che dei termine viene dato nella vita comune (e cioè di contesa anche tra due sole persone idonea a procurare, per le modalità dell’azione e per la sua capacità di coinvolgere terzi, una situazione di pericolo non limitata ai soli protagonisti); e, dall’altro, più in linea con le necessità peculiari dell’ambiente di lavoro, prendendo in considerazione l’idoneità del fatto a provocare una qualche alterazione della regolarità e dei pacifico e ordinato svolgersi della vita collettiva all’interno di esso:-e cioè una nozione connotata da una più esatta capacità definitoria, in quanto direttamente connessa alle tavole di valori alla cui tutela presiedono i codici disciplinari elaborati dall’autonomia collettiva.
Su tali premesse la Corte ha, quindi, proceduto ad analizzare compiutamente l’episodio sia sul piano fattuale e circostanziale, che su quello dell’idoneità a determinare una situazione di turbamento dell’attività aziendale, pervenendo, ancora con motivazione congrua ed esente da critiche, ad escludere non solo la sussistenza -di una “rissa”, così come (diversamente) definita (non vi era stata, infatti, “contesa” tra due persone, essendosi il contatto fisico limitato ad una “spallata” senza conseguenze sull’equilibrio fisico) ma anche la sussistenza delle condizioni che potessero legittimare una risoluzione in tronco del rapporto.
In particolare, e sotto tale ultimo profilo, il giudice di appello ha valutato altresì i rapporti tra il C. ed i colleghi di lavoro e tra il C. e la persona co-protagonista dell’episodio, evidenziando l’assenza di alcun riferimento nella lettera di contestazione, per i primi, e la carenza di precisazioni circa modalità, tempi e contenuti di pregresse minacce e provocazioni, per i secondi; nonché valutato la natura e l’importanza delle mansioni svolte dal lavoratore (che erano quelle di “assistente gestionale e operativo” e non di responsabile della sicurezza degli studi televisivi), escludendo che le medesime, per livello di inquadramento e contenuto, fossero connotate da un particolare rilievo dell’elemento fiduciario, sicché, anche sotto tale ultimo profilo, oltre che per l’insieme delle specifiche circostanze oggettive e soggettive che avevano caratterizzato l’episodio, era da ritenersi che la sanzione Irrogata non fosse conforme alla regola di cui all’art. 2106 c.c..
Né può condividersi la censura svolta con il terzo motivo, avendo il giudice di appello -­diversamente da quanto sostenuto dalla società ricorrente – pronunciato sulla domanda di conversione dell’intimato atto espulsivo in recesso con preavviso, alla stregua dell’art. 48 lett. A) del CCNL Telecomunicazioni, secondo quanto emerge dall’esame della
sentenza impugnata (par. 3.4.)
Al riguardo si deve rilevare come la sentenza, richiamando espressamente il complesso di considerazioni e argomentazioni svolto in precedenza (secondo l’univoco significato delle parole “in considerazione di quanto detto”), abbia fatto oggetto di adeguato esame anche l’ipotesi disciplinare di minore gravità, la quale muove dall’identico presupposto del licenziamento senza preavviso e cioé dall’esistenza di una “rissa” nel senso fatto proprio dalla volontà dei contraenti collettivi.
I[ ricorso deve, pertanto, essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in, dispositivo.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso ‘e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
Al sensi dell’art. 13 comma 1 quater dei d.P.R. n, 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dei comma 1-bis dello stesso articolo 13.
[1] Cass. sent. n. 2830/2016 del 12.02.2016.
(Fonte: La Legge per tutti)


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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