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Licenziamento per condotte extra lavorative


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Licenziamento disciplinare, condotte illecite o disdicevoli fuori dall’ambiente di lavoro, dipendente fallito o sommerso dai debiti, esclusione del licenziamento per giusta causa.
 Il dipendente è tenuto non solo a fornire al datore di lavoro le proprie prestazioni lavorative, ma anche a osservare un comportamento decoroso fuori dagli ambienti lavorativi, o meglio tale da non ledere gli interessi morali e materiali dell’azienda. Questo significa che un eventuale comportamento illecito o disonorevole del dipendente, sebbene attuato fuori dal posto di lavoro, può dar luogo al licenziamento per giusta causa (cosiddetto licenziamento disciplinare).

Lo ha chiarito la Cassazione in una recente sentenza [1].

 I lavoratore sommerso da debiti

Nella pronuncia in commento, la Corte chiarisce che il dipendente sommerso dai debiti, finanche fallito, non ha posto uno di quei comportamento extralavorativi che costituiscono giusta causa di licenziamento.

Insomma, uno stato di bancarotta non è tale da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, poiché i debiti trovavano origine in vicende esclusivamente private. A tutto voler concedere, il datore di lavoro dovrebbe dimostrare che la situazione economica della dipendente ne abbia negativamente influenzato l’espletamento dei compiti lavorativi o il tenore professionale della prestazione.

La sentenza

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 19 maggio – 31 luglio 2015, n. 16268
Presidente Stile – Relatore Manna

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 7.7.14 la Corte d’appello di Roma, in totale riforma della sentenza n. 2123/14 del Tribunale capitolino, dichiarava illegittimo il licenziamento per giusta causa – concernente condotte extralavorative di indebitamento – intimato il 21.6.12 a B.F. dalla Banca Popolare di Milano Soc. coop. a r.l., condannando quest’ultima a reintegrare la lavoratrice con tutte le conseguenze economiche di cui all’art. 18 Stat. nel testo in vigore prima della novella di cui alla legge n. 92/2012.

Per la cassazione della sentenza ricorre Banca Popolare di Milano Soc. coop. a r.l. affidandosi a quattro motivi.

B.F. resiste con controricorso.

Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

1- Con il primo motivo il ricorso lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nella misura in cui la sentenza impugnata ha negato rilevanza, ai fini della lesione del vincolo fiduciario, a comportamenti privati del lavoratore non integranti illecito penale.

Con il secondo motivo il ricorso deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c. e 7 Stat. con riferimento al giudizio di proporzionalità, non avendo la gravata pronuncia tenuto conto della natura e della peculiarità del rapporto di lavoro con un istituto di credito, del grado di affidamento richiesto per l’espletamento delle mansioni della controricorrente, delle precedenti sanzioni disciplinari irrogatele e dei riferimenti alla contrattazione collettiva.

Con il terzo motivo il ricorso si duole di violazione e falsa applicazione dell’art. 38 CCNL settore del credito e delle norme disciplinari da esso derivate, che impongono al dipendente di banca di tenere una condotta informata ai principi di disciplina, dignità e moralità, incompatibili con il disordine economico della ricorrente, che l’aveva portata a subire plurimi protesti e pignoramenti dello stipendio (e successive ordinanze di assegnazione) per i debiti non onorati e a trovarsi in una situazione di vero e proprio dissesto economico, cui ella non aveva mai cercato di rimediare.

Con il quarto motivo il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 7 Stat. in relazione all’art. 2119 c.c., nella parte in cui la Corte territoriale non ha tenuto conto dei precedenti disciplinari della controricorrente in quanto risalenti ad oltre due anni prima: a riguardo la gravata pronuncia non ha considerato che il divieto di cui all’art. 7 legge n. 300/70, se consente a fini di recidiva di tenere conto solo dei precedenti disciplinari infrabiennali, non impedisce di considerare anche quelli più remoti al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio irrogato.

2- I motivi di ricorso – da esaminarsi congiuntamente perché connessi – sono infondati.

La sentenza impugnata, lungi dall’asserire che condotte extralavorative possano integrare giusta causa di licenziamento soltanto se integranti illecito penale, si è limitata a premettere (al solo fine di escludere la riferibilità, al caso concreto, della giurisprudenza di questa Corte relativa al licenziamento di dipendenti bancari resisi responsabili di reati contro il patrimonio) che i comportamenti addebitati all’odierna controricorrente non hanno alcuna rilevanza penale. Proseguendo oltre, ha escluso che i debiti accumulati da B.F. fossero tali da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, vuoi perché essi trovavano origine in vicende esclusivamente private, vuoi perché non era stato in alcun modo dimostrato che la situazione economica della lavoratrice ne avesse negativamente influenzato l’espletamento dei compiti lavorativi o il tenore professionale della prestazione.

Ciò detto, è noto che il concetto di giusta causa non si limita all’inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, ma si estende anche a condotte extralavorative che, seppur formalmente estranee alla prestazione oggetto di contratto, nondimeno possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti.

In ordine alla possibile rilevanza, come giusta causa di licenziamento, anche di condotte extralavorative si tenga presente che in dottrina si sono a lungo confrontate due opzioni di fondo: l’una, restrittiva, espunge dal novero dei comportamenti passibili di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo qualunque comportamento esterno agli obblighi lavorativi oggetto di contratto; l’altra, estensiva, comprende nel concetto di giusta causa anche condotte che, pur se concernenti la vita privata del lavoratore, tuttavia possano in concreto risultare idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che connota il rapporto di subordinazione, nel senso che abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa.

Altra dottrina, invece, condividendo con la giurisprudenza (cfr., ex aliis, Cass. n. 1519/93; Cass. n. 1355/87) un approccio meno dogmatico al tema, privilegia una valutazione complessiva dei singoli casi, tenendo conto della natura e della qualità delle parti e della loro posizione, dell’immagine esterna dell’azienda, nonché del grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni.

In altre parole, la condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario (cfr. Cass. n. 776/15).

Nondimeno, è pur sempre necessario che si tratti di comportamenti che, per la loro gravità, siano suscettibili di scuotere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro perché idonei, per le concrete modalità con cui si manifestano, ad arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (cfr. Cass. n. 15654/12).

È proprio questo il punto su cui la ricorrente non confuta in maniera specifica ed argomentata il rilievo della Corte territoriale secondo cui non è emerso che la situazione economica della controricorrente ne abbia in concreto influenzato negativamente l’espletamento dei compiti lavorativi o il tenore professionale della prestazione.

Nulla si legge a riguardo in ricorso, che insiste sulla potenziale rilevanza del disordine economico della controricorrente, senza però allegarne in concreto la negativa incidenza nell’adempimento dell’obbligazione lavorativa.

Ed anche a voler soltanto esaminare la condotta de qua sotto la visuale della mera potenzialità lesiva, deve darsi atto che la gravata pronuncia l’ha esclusa – con motivazione immune da vizi logici o giuridici – constatando che i compiti lavorativi di B.F. , di carattere meramente amministrativo (controllo della regolarità formale di cessioni di crediti rivenienti da fatture, loro registrazione nel sistema informatico, aggiornamento dei dati anagrafici e societari dei clienti e mera compilazione di lettere di intimazione di rientro destinate ai morosi), non erano tali da poter essere negativamente influenzati dalla pesante esposizione debitoria della dipendente.

In breve, fermo restando che le condotte extralavorative possono integrare giusta causa di licenziamento ove siano tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti del rapporto lavorativo, l’apprezzamento della potenzialità o dell’attualità di tale lesione è riservato al giudice di merito ed è, quindi, insindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato.

Quanto alla circolare aziendale (e non codice etico, secondo quel che si legge in ricorso) che vieta l’ulteriore indebitamento a chi abbia già chiesto un finanziamento alla banca, basti osservarne l’irrilevanza nella presente sede, atteso che nella lettera di contestazione riportata in ricorso non si parla di alcun precedente finanziamento chiesto da B.F. alla propria banca (ma di protesti, tutti concentrati nell’arco di cinque mesi, e dei conseguenti pignoramenti, l’uno ad istanza della società Danyleasing e l’altro ad istanza del Credito Artigiano) e che il codice disciplinare (sottoposto al rigoroso regime di pubblicità previsto dall’art. 7 Stat.) non può essere integrato da mere circolari, quantunque – in ipotesi e secondo la mera asserzione dell’odierna ricorrente – diffuse in azienda e/o materialmente consegnate a mani a ciascun dipendente.

È pur vero che il mancato rispetto di direttive aziendali contenute in apposite circolari può, a sua volta, dare luogo ad una violazione di potenziale rilievo disciplinare, ma la Corte territoriale ha escluso che della regola di cui sopra B.F. fosse a conoscenza: la contraria affermazione che si legge in ricorso scivola sul piano dell’apprezzamento di merito delle risultanze probatorie, il che non è consentito in sede di legittimità.

Alla stregua delle osservazioni che precedono è irrilevante la doglianza relativa alla mancata valutazione di remoti precedenti disciplinari al fine di valutare la complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze della lavoratrice e della proporzionalità o meno del correlato provvedimento di tipo espulsivo: infatti, trattandosi di indici valutativi dell’entità della sanzione irrogata, essi sono ininfluenti una volta che nel caso concreto i giudici di merito abbiano escluso – come avvenuto nel caso di specie – che la condotta extralavorativa sia meritevole di sanzione.

3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, spese da distrarsi in favore dell’avv. Gabriele Gatti, antistatario.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall’art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.

[1] Cass. sent. n. 16268/2015 del 31.07.2015.

(Fonte: La Legge per tutti) 


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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