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La causa per mobbing include quella per demansionamento


Ordine Informa

Risarcimento del danno in favore del dipendente inattivo: la domanda giudiziale per l’evento maggiore contiene anche quella per il fatto di minor portata.
Intraprendere la causa per mobbing o per demansionamento contro il datore di lavoro colpevole di aver obbligato il dipendente a una forzata inattività, con svuotamento delle proprie capacità e professionalità? Una scelta spesso non facile, specie perché il primo (il mobbing, appunto) richiede un onere della prova particolarmente difficile. Ma ora a togliere ogni dubbio interviene una sentenza della Cassazione [1] secondo cui la proposizione di una domanda giudiziale per mobbing contiene in sé anche quella per demansionamento: con l’indiscutibile vantaggio che, se la prima richiesta viene rigettata dal giudice, resta in piedi quella di risarcimento per il secondo fatto (certamente, di minor portata). In questo modo i giudici hanno condannato un datore di lavoro al risarcimento del danno biologico e da perdita di professionalità in favore del dipendente tenuto inattivo per un apprezzabile periodo di tempo, nonostante la sentenza avesse escluso che la condotta della società integrasse gli estremi del mobbing su cui si fondava la domanda del lavoratore. 

Il primo importante chiarimento che la Suprema Corte fornisce è che, nell’indagine diretta a individuare le richieste presentate dal dipendente al giudice del lavoro, quest’ultimo deve guardare il contenuto sostanziale del ricorso (quello che i tecnici del diritto chiamano “petitum”): insomma, non conta tanto quello che viene scritto nelle conclusioni dell’atto processuale, ma l’esame complessivo dello stesso, anche con riferimento alla parte introduttiva ed espositiva [2]. Da tale indagine può risultare che, sebbene il lavoratore abbia formalmente avanzato una richiesta per mobbing, in essa potrebbe essere anche contenuta, in via subordinata (ossia in caso di mancato accoglimento della prima) quella per l’accertamento della dequalificazione professionale. Per usare le parole della Cassazione, nella domanda di risarcimento dei danni da preteso mobbing può ritenersi compresa anche quella, di minor portata, di risarcimento dei danni da demansionamento, quale conseguenza dell’inattività o della scarsa utilizzazione del lavoratore volutamente decisa dal datore. In questo modo, qualora il giudice escluda la natura “mobbizzante” della condotta del datore di lavoro, ben può esaminare la domanda anche sotto il profilo della violazione degli obblighi di non adibire il lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali è stato assunto [3]. 

Quando scatta il mobbing? Il mobbing, come è noto, consiste in un comportamento vessatorio e discriminatorio, preordinato a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro. Nella sentenza vengono infine sintetizzate le condizioni in presenza delle quali scatta il mobbing: a) plurimi comportamenti di carattere persecutorio posti in essere contro la “vittima” in modo sistematico e prolungato nel tempo; b) l’evento lesivo della salute, della personalità e della dignità del dipendente; c) il rapporto di causa-effetto tra le suddette condotte e il danno subìto dalla vittima; d) il collegamento tra tutte le condotte poste in essere dal datore di lavoro che devono essere sorrette dall’intento persecutorio dei confronti del dipendente. Nel caso in commento, la condotta di “esautoramento del lavoratore dalle sue mansioni”, in assenza del requisito soggettivo dell’intento persecutorio e vessatorio, è stata correttamente ritenuta riconducibile a una ipotesi di demansionamento.

Quando il mobbing diventa reato

Secondo la Cassazione [4] il reato di maltrattamenti scatta solo a determinate condizioni: è necessario che le pratiche persecutorie e maltrattanti del datore di lavoro in danno del dipendente, ovvero, in ambito di rapporti professionali, del superiore nei confronti del sottoposto, siano caratterizzate per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie.

Tale situazione, ha osservato la Corte, ben può configurarsi anche nel caso di rapporti di lavoro tra professionisti di elevata qualificazione.

Al contrario, il reato di maltrattamenti non sarebbe configurabile, anche in presenza di un chiaro fenomeno di mobbing lavorativo, laddove non siano riconoscibili quelle particolari caratteristiche: ad esempio, se la vicenda si sia verificata nell’ambito di un realtà aziendale sufficientemente articolata e complessa, in cui non è ravvisabile quella stretta e intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente, che determina una comunanza di vita assimilabile a quella del consorzio familiare.

[1] Cass. sent. n. 22635/2015.

[2] Cass. sentt. nn. 20294/2005 e 22893/2008.

[3] Art. 2103 cod. civ.

[4] Cass. sent. n. 40320/2015.

(Fonte: La Legge per tutti) 


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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