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Facebook dal pc aziendale: è legittimo il licenziamento?


Ordine Informa

Quante volte, anche per distrarsi da una lunga giornata di lavoro, si decide di andare su Facebook e staccare la spina per qualche minuto. Ad una dipendente, però, il volersi distrarre per qualche minuto sul social network in questione è costato il posto di lavoro; ebbene si il datore di lavoro ha il diritto di verificare se i propri dipendenti svolgano le mansioni loro affidate.
Tale orientamento è stato confermato dal Tribunale di Brescia che, con una recente sentenza [1], ha confermato il licenziamento della lavoratrice sorpresa ad utilizzare il computer aziendale per controllare Facebook e la propria mail personale, senza una espressa autorizzazione da parte del datore di lavoro.
Il caso trattato dal Tribunale di Brescia è abbastanza singolare; la lavoratrice, assunta regolarmente con contratto a tempo indeterminato presso lo studio medico con mansioni di segretaria amministrativa, lamenta che il licenziamento da parte del datore di lavoro abbia rivelato una ritorsione per una sua richiesta di permessi ex legge 104 del 1992.
Dal dibattimento è, invece emerso, che la donna fosse stata più volte sorpresa ad utilizzare il pc aziendale per fini estranei allo svolgimento della prestazione lavorativa. Nello specifico è stato dimostrato dal datore di lavoro, che la ricorrente accedeva frequentemente a social network, giochi, musica ed altre attività che erano del tutto estranee alle mansioni che le erano state attribuite.
Di conseguenza il datore di lavoro ha predisposto il licenziamento della dipendente per le ragioni poc’anzi esposte. Quest’ultima, però, contestando quanto affermato dal datore di lavoro, ha disposto il ricorso per ottenere:
l’annullamento del licenziamento poiché ritenuto ritorsivo o discriminatorio;
la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione della stessa al proprio posto di lavoro;
la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto non inferiore a 12 mensilità, ecc;
Il datore di lavoro, quindi, si costituiva in giudizio contestando quanto affermato dagli avversari e chiedeva, di conseguenza il rigetto del ricorso.
Fatta questa premessa di carattere generale, necessaria ad introdurre il caso, è opportuno ricordare che il licenziamento per ritorsione [2] rappresenta una reazione ingiusta ed arbitraria del datore di lavoro ad un comportamento legittimo del lavoratore. Per queste ragioni, essendoci un legame diretto tra il comportamento del lavoratore e la decisione del datore di lavoro, la conseguenza principale è la “nullità del licenziamento”; la ritorsione dev’essere, quindi, il motivo posto alla base del licenziamento. L’unico adempimento a cui il lavoratore è chiamato è la prova di quanto detto sinora [3].
Nel caso di specie gli elementi acquisiti hanno effettivamente evidenziato come la condotta contestata sia stata effettivamente tenuta dalla ricorrente.
La ricorrente, infatti, non ha mai negato quanto le veniva contestato, ossia i numerosi accessi in circa 18 mesi, ai vari social network, giochi musica ed attività del tutto estranee allo svolgimento dell’attività lavorativa che la stessa doveva svolgere.
Gli accessi ad internet sono stati confermati dalla documentazione prodotta dal datore di lavoro; per cui la condotta posta in essere dalla ricorrente integra una violazione della diligenza e buona fede nell’espletamento della prestazione lavorativa dal parte della lavoratrice. Pertanto la condotta non può considerarsi come legittima.
La conseguenza di quanto affermato sinora e di quanto emerso dal quadro probatorio è che chiaramente si possa escludere come la volontà del datore di lavoro di porre fine al rapporto lavorativo sia la conseguenza delle presentazione della domanda dei permessi “104”.
Entrando nel merito della vicenda, è emerso come il licenziamento sia effettivamente fondato sulla giusta causa.
Entrando nel merito della vicenda, è emerso come il licenziamento sia effettivamente fondato sulla giusta causa.
Difatti lo stesso tribunale ha testualmente affermato che: ”Va precisato che il datore di lavoro si è limitato a stampare la cronologia ed il tipo di accesso ad internet dal computer della dipendente, il che non richiede alcun dispositivo di controllo, né implica la violazione della privacy trattandosi di dati che vengono registrati da qualsiasi computer e che sono stati stampati al solo fine di verificare l’utilizzo di uno strumento messo a disposizione dal datore di lavoro per l’esecuzione della prestazione. Né può ipotizzarsi una violazione dell’art. 4 della legge 300 del 1970, trattandosi di attività di controllo non della produttività ed efficienza nello svolgimento dell’attività lavorativa, ma condotte estranee alla prestazione”.
Senza contare che la stessa ricorrente, oltre a non ha mai negato la navigazione, ha sempre sostenuto che la sua privacy fosse stata violata e che la navigazione fosse consentita. Per cui il tribunale ha concluso che: “La condotta appare senza dubbio grave se si tiene conto che si tratta di circa 6000 accessi in 18 mesi(…). Si tratta di un comportamento idoneo ad incrinare la fiducia del datore di lavoro, avendo la (…) costantemente e per lungo tempo sottratto ore alla prestazione lavorativa ed utilizzando impropriamente lo strumento di lavoro, approfittando del fatto che il datore di lavoro non la sottoponesse a controlli”.
Per queste ragioni il ricorso della lavoratrice è stato rigettato ed il licenziamento ritenuto fondato per giusta causa.
(Autore: Avv. P. Francesca Micolucci)
(Fonte: La Legge per tutti)


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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