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Divieto di trasferimento e licenziamento per chi assiste il familiare disabile con handicap.


Ordine Informa

Il datore di lavoro non può obbligare al trasferimento il dipendente che assiste un parente malato o con handicap, anche se questi non è titolare dei benefici della legge 104; per cui se il lavoratore rifiuta, in tali casi, il cambio di sede per prendersi cura del familiare bisognoso di assistenza, non può essere licenziato. È questo l’innovativo principio sancito oggi dalla Cassazione [1]: una sentenza che farà la gioia di quanti non hanno ottenuto il riconoscimento della famosa legge 104 del 1992.
Secondo la Corte è illegittimo il trasferimento e il successivo licenziamento per rifiuto al cambio di sede, del lavoratore che, pur non essendo titolare dei benefici della legge 104, presenta un certificato dello stato di famiglia comprendente anche la madre invalida al 100%, certificato non disconosciuto dall’azienda.
In passato la Corte Costituzionale [2] ha infatti sottolineato il ruolo fondamentale della famiglia nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap, sottolineando così che una tutela dei soggetti deboli richiede, oltre alle necessarie prestazioni sanitarie e di riabilitazione, anche la cura, l’inserimento sociale e, soprattutto, la continuità delle relazioni costitutive della personalità umana. La legge 104 ha preso in particolare considerazione l’esigenza di favorire la socializzazione del soggetto disabile, predisponendo strumenti rivolti ad agevolare il suo pieno inserimento nella famiglia, nella scuola e nel lavoro, in attuazione del principio secondo cui la socializzazione è un fondamentale fattore di sviluppo della personalità ed un idoneo strumento di tutela della salute del portatore di handicap.
D’altra parte – si legge ancora nella sentenza – alla legge 104 e ai benefici relativi al divieto di trasferimento del lavoratore si deve dare un’interpretazione “larga”, cioè orientata alla tutela dei principi costituzionali coinvolti: sicché il diritto del familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parete o affine entro il 3° grado handicappato, di non essere trasferito in altra sede senza il suo consenso non può subire alcuna limitazione in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell’azienda o della pubblica amministrazione [3].
Dunque, il trasferimento del lavoratore che assiste un familiare disabile è vietato anche quando il quadro di grado di disabilità non si configuri come grave, a meno che il datore, a fronte della natura e del grado di infermità psico-fisica del familiare, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte.
Del resto, la Corte di Giustizia dell’Unione europea [4], in passato, ha condannato l’Italia per non aver imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili. La Corte di Giustizia ha aggiunto che la Convenzione ONU del 13 dicembre 2006 sui diritti dei disabili stabilisce che si devono porre in essere le misure necessarie a favorire le persone disabili, onde garantire ad esse il godimento e l’esercizio dei diritti umani. In particolare, i datori di lavoro devono essere obbligati dalla legge nazionale ad adottare misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento.
La vicenda
La sede delle società per la quale lavorava era stata chiusa e l’azienda aveva disposto il suo trasferimento dalla provincia di Palermo a Bari, a 800 chilometri di distanza. Una mobilità sottoscritta dalle organizzazioni sindacali. Il rifiuto del trasferimento con richiesta di subentro nella sede di Palermo, come peraltro avvenuto per altri colleghi, era stata rifiutata dalla dipendente che era stata licenziata. Il licenziamento è stato dichiarato illegitto dalla Cassazione anche sulla scorta Convenzione Onu del 13 dicembre 2006 sui diritti dei disabili.
LA SENTENZA
LA MASSIMA
L’ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio, a seguito di sentenza di accertamento della nullità dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro, implica il rirpristino della posizione di lavoro del dipendente, in cui reinserimento nell’attività lavorativa deve avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento dellavoratore ad altra unità produttiva e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, in mancanza delle quali è configurabile una condotta datoriale illecita, che giustifica la mancata ottemperanza a tale provveimento da parte del lavoratore, sia in attuazione di un’eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c. sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti.
[1] Cass. sent. n. 22421/15 del 3.11.2015.
[2] C. Cost. sent. n. 350/2003, n. 167/1999, n. 467/2002.
[3] Cass. S.U. sent. n. 16102/2009.
[4] C. Giust. U.E. sent. C-312/2011.
(Fonte: La Legge per tutti)


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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