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Assenza ingiustificata del dipendente: licenziamento


Ordine Informa

Il lavoratore assente dal proprio posto in azienda, senza una valida motivazione e senza averlo previamente comunicato al datore può essere licenziato: ecco una serie di casi in cui è legittimo il provvedimento disciplinare.
Tutte le volte in cui il lavoratore è “assente ingiustificato” può essere licenziato. Lo ha chiarito la Cassazione con una sentenza di ieri [1].
Si ha assenza ingiustificata quando il dipendente non comunichi tempestivamente le motivazioni della sua assenza dal servizio, o addirittura, fornisca informazioni non veritiere. L’assenza prolungata e ingiustificata compromette, infatti, il rapporto fiduciario tra le parti in modo irreversibile.
Non comunicare tempestivamente al datore di lavoro eventuali impedimenti del regolare espletamento della prestazione lavorativa, che determinano la necessità di assentarsi per diversi giorni, giustifica il licenziamento, in quanto la suddetta assenza dal lavoro se non comunicata è idonea ad arrecare al datore di lavoro un pregiudizio organizzativo [2].
Ritardi e assenze ingiustificate
Al lavoratore, di norma, è consentito ritardare l’inizio del lavoro o assentarsi dal proprio posto solo per giustificato motivo o avvisando il superiore diretto. L’assenza dev’essere giustificata entro un tempo variabile tra un minimo di 24 ed un massimo di 48 ore, a seconda dei diversi contratti.
La comunicazione delle giustificazioni deve pervenire entro il termine previsto. Non è sufficiente la spedizione di una lettera giustificativa entro tale periodo.
In ogni caso, l’assenza ingiustificata non è causa di licenziamento se è di pochi attimi (si pensi al dipendente che si reca in bagno o risponde a una telefonata familiare, allontanandosi nel corridoio, o che vada al distributore automatico per acquistare una bottiglia d’acqua). L’assenza, al contrario, deve essere protratta oltre un certo termine dal lavoro per poter dar luogo al licenziamento. Insomma l’assenza deve essere valutata come infrazione disciplinare con tutto il procedimento preliminare che consegue.
Alcuni CCNL specificano quale debba essere la durata dell’assenza ingiustificata affinché la stessa sia considerata come volontà di dimettersi (ad esempio: oltre i tre giorni). Per la giurisprudenza maggioritaria, il lavoratore può dimostrare (offrendo prova contraria) l’assenza di tale volontà [3].
Nella sentenza sopra richiamata, la Suprema Corte ha ritenuto che quindici giorni di assenza dal lavoro fossero più che sufficienti per la risoluzione del rapporto con l’azienda.
L’abbandono del posto di lavoro non ha, di per sé, il significato di un tacito atto di dimissioni da parte del lavoratore, ma dal suo comportamento devono risultare anche ulteriori circostanze di fatto a conferma della sua volontà di dimettersi e la stessa volontà deve essere comunicata al datore di lavoro in maniera idonea [4]. Se il datore di lavoro non ha certezza della reale volontà del lavoratore di dimettersi, egli può contestare comunque la protratta assenza sul piano disciplinare, per procedere al successivo licenziamento al superamento dei limiti previsti dal codice disciplinare.
LA SENTENZA
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 10 giugno – 11 settembre 2015, n. 17987
Presidente/Relatore Roselli
Svolgimento del processo
Con sentenza dell’ 11 agosto 2014 la Corte d’appello di Potenza, in riforma della decisione emessa dal Tribunale, dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato il 29 novembre 2012 della s.p.a. Agroalimentere sud al dipendente M.L. per assenza ingiustificata dal lavoro durata più di tre giorni (art.70 c.c.n.l. di settore).
La Corte non negava il fatto, ossia la detta assenza, ma, avuto riguardo al concreto svolgimento del rapporto lavorativo, caratterizzato da “grossa conflittualità”, riteneva sproporzionata la sanzione del licenziamento. Ciò equivaleva, sempre ad avviso della Corte, ad “insussistenza del fatto contestato”, espressamente prevista nell’art. 18, comma 4, 1. 20 maggio 1970 n.300, introdotto dall’art.1, comma 42,1. 28 giugno 2012 n.92, come causa di annullamento del licenziamento e del conseguente ordine giudiziale di reintegrazione nel posto di lavoro. La Corte emanava pertanto quest’ordine insieme alla condanna risarcitoria.
Contro questa sentenza ricorre per cassazione la s.p.a. Agroalimentare sud mentre il L. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Le eccezioni di inammissibilità del ricorso, sollevate dal ricorrente, sono prive di fondamento poiché:
-egli, costituito in giudizio, non dice quale interesse abbia a che al ricorso sia allegata copia della deliberazione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bari, di autorizzazione a notificare a mezzo posta, ex 1. 21 gennaio 1994 n.53;
– sui singoli motivi di ricorso compare regolare rubrica;
-l’unico motivo rilevante ai fini di questa decisione , come risulterà nel prosieguo, non pone questioni di merito.
Col primo motivo [a ricorrente lamenta la violazione degli artt.2119 cod. civ. ° 70 n.2 c.c.n.l. industria agroalimentare, per avere la Corte d’appello ritenuto sproporzionata la sanzione espulsiva rispetto all’illecito disciplinare commesso dal lavoratore, consistente in un’assenza ingiustificata dal lavoro per tre giorni consecutivi ed espressamente previsto dall’art.70 cit. come giusta causa di licenziamento. Il motivo è fondato.
Secondo una risalente giurisprudenza di questa Corte, la clausola di un contratto collettivo che preveda un certo fatto quale giusta causa o
giustificato motivo di licenziamento non esime il giudice dalla valutazione di proporzionalità fra il provvedimento espulsivo adottato dal datore di lavoro e la gravità del fatto addebitato all’incolpato (Cass. 4 febbraio 1983 n.939, 2 febbraio 1990 n.690). La necessità di questa valutazione discrezionale tuttavia non sussiste quando si tratti di fattispecie di illecito disciplinare formulata non già con espressioni elastiche ma rigidamente predeterminata e non sussistano circostanzeattenuanti. La situazione di .l “grossa conflittualità” tra le parti del rapporto di lavoro, genericamente evocata dalla Corte d’appello, non può assumere alcun rilievo attenuante, posto che tutti i licenziamenti per indisciplina non colposa rivelano una conflittualità tra datore e prestatore di lavoro.
Nel caso di specie la sequenza temporale dei fatti, come pacificamente ricostruita nella sentenza qui impugnata, è la seguente: — il 3 novembre 2011 il lavoratore venne licenziato;
– dichiarata dal Tribunale l’illegittimità del licenziamento, l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro venne emesso il 17 luglio 2012;
– la datrice di lavoro, invece di riammettere il lavoratore effettivamente in servizio, lo collocò in ferie fino al 31 ottobre 2012; – il 1 ° novembre successivo questi avrebbe dovuto perciò presentarsi al lavoro;
– egli, ritenendo illegittimo il suo collocamento in ferie, aveva frattanto adìto il Tribunale di Melfi per l’effettiva attuazione, ex art.669 duodecies cod. proc. civ., del diritto di riammissione in servizio, ed il Tribunale ordinò la ripresa dell’attività in azienda il 7 novembre 2012;
– tale ripresa avvenne effettivamente il 16 successivo.
Non é dubbio perciò che il lavoratore, richiamato in servizio, fu assente per quindici giorni, né la Corte d’appello trova una plausibile o almeno parziale giustificazione per questo ritardo. Essa infatti parla di timore di continuazione del comportamento dell’impresa, ostile all’effettiva riammissione in servizio; di dichiarazioni scritte, del 5 e 15 novembre 2012, manifestanti disponibilità alla ripresa del lavoro, ma non dice quale ostacolo alla ripresentazione incontrasse il lavorato re, pósto che egli fosse realmente intenzionato a lavorare.
E pertanto palese la realizzazione della fattispecie di cui all’art.70 c.c.n.l. dell’industria agroalimentare del 14 luglio 2003 e quindi dell’art.2119 cod, civ
Cassata la sentenza impugnata, la non necessità di ulteriori accertamenti di fatto rende possibile la decisione nel merito, ossia il rigetto della domanda originariamente proposta.
Gli altri motivi di ricorso, concernenti le conseguenze della dichiarazione di illegittimità del licenziamento, rimangono assorbiti.
La frequente incertezza della materia disciplinare, che talvolta induce il giudice al bilanciamento dei valori coinvolti e, come nella specie, ad alterne vicende delle fasi di merito, induce a compensare le spese dell’intero processo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda originariamente proposta dal L.. Spese compensate per l’intero processo. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 uc ater, d.P R. n. 115 del 2002, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il • î versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
[1] Cass. sent. n. 17987/15 dell’11.09.2015.
[2] Cass. sent n. 10352/2014.
[3] Cass. sent. n. 1025/2015.; Cass. sent. n. 16507/2013; Cass. sent. n. 12942/1999.
[4] Cass. sent. n. 2170/2000.
(Fonte: La Legge per tutti)


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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