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Assente dal lavoro per una pausa: licenziamento valido?


Ordine Informa

Chi si assenta dal lavoro per svolgere attività e mansioni relative a scopi personali compie un gesto di insubordinazione tale da portare al licenziamento? 
La pausa non autorizzata dall’orario di lavoro, magari per compiere attività personali, può comportare, in automatico, il licenziamento del lavoratore indisciplinato oppure bisogna valutare, caso per caso, la gravità della condotta e il danno procurato all’azienda? A dare una risposta è stata la Cassazione con una recente sentenza [1].

La Corte ha ribadito un principio ormai consolidato da tempo: anche in presenza di condotte considerate, dal contratto collettivo o dal regolamento aziendale, come “gravi” e, quindi, passibili di licenziamento, in realtà, prima di prendere una decisione così drastica, non si può prescindere da un’analisi della vicenda concreta, del comportamento del lavoratore, delle eventuali giustificazioni, del tempo sottratto al lavoro e, infine, dell’eventuale pregiudizio arrecato all’azienda, all’attività produttiva o alla sicurezza degli altri dipendenti. Dunque, il giudice – in caso di impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore – non può effettuare una valutazione astratta, sulla base della semplice condotta posta in essere, ma deve valutare tutti i dettagli della situazione materiale.

Dunque, in verità, risposte generali al quesito posto in apertura dell’articolo non si possono fornire: l’allontanamento non autorizzato dal lavoro va valutato volta per volta. Il che, però, significa anche che, in ipotesi di violazioni lievi, il dipendente si può anche salvare dal licenziamento.

 

Bisogna dunque ricostruire nel dettaglio l’episodio addebitato al lavoratore: quando non è particolarmente “grave” esso non può giustificare il licenziamento.

 

Ad esempio, la pausa non autorizzata per fini personali è stata ritenuta causa di licenziamento quando il dipendente era preposto al controllo dei macchinari e la sua assenza ha posto in serio pericolo l’incolumità dei colleghi o l’integrità dei beni aziendali. Altrettanto grave è stato considerato l’abbandono del posto di lavoro da parte di una guardia giurata che doveva presidiare un luogo da eventuali malintenzionati.

 

Diverso è, invece, il caso in cui il circolo produttivo dell’azienda possa ugualmente proseguire anche in assenza del dipendente. Sarà determinante anche la durata del contestato abbandono del posto di lavoro, l’attività che questi stava svolgendo, il pericolo che da ciò sia derivato per azienda e lavoratori.
LA SENTENZA
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 13 gennaio – 26 aprile 2016, n. 8236

Presidente Venuti – Relatore Negri Della Torre

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 268/2011, depositata il 7 febbraio 2012, la Corte di appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza dei Tribunale di Tolmezzo che aveva respinto il ricorso dei lavoratore, disponeva la conversione dei licenziamento per giusta causa, intimato a C.G. da Axel s.r.l. con lettera dei 27/6/2008, in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, accertando il diritto dei lavoratore a percepire l’indennità sostitutiva dei preavviso.

A sostegno della propria decisione la Corte territoriale escludeva innanzitutto che la contestazione disciplinare fosse generica, poiché, sia pure in modo sommario, conteneva tutti gli elementi essenziali a identificare e ricostruire il fatto, così che era da ritenere che il lavoratore fosse stato messo in grado di formulare le sue difese, anche tenuto conto del fatto che la lettera contenente gli addebiti gli era stata consegnata appena due giorni dopo.

La Corte escludeva altresì che il licenziamento potesse essere valutato come illegittimo per mancata affissione del codice disciplinare, sul rilievo che la condotta contestata aveva comportato la violazione del dovere fondamentale del dipendente di tenere a disposizione del datore di lavoro, durante l’orario di lavoro, le energie lavorative e cioè la violazione di un dovere che risulta tale indipendentemente dalla formale enunciazione in un codice disciplinare. La Corte escludeva infine che la sanzione espulsiva potesse considerarsi sproporzionata rispetto al comportamento contestato, essendosi trattato in sostanza di un episodio di insubordinazione, oltre che di una sorta di appropriazione indebita del tempo di lavoro retribuito e dei beni aziendali, e d’altra parte il G., nel due anni precedenti, aveva già ricevuto quattro contestazioni disciplinari, seguite in tre casi da sanzioni. Non sussisteva peraltro la giusta causa, posto che il fatto addebitato, pur idoneo a giustificare il licenziamento, non poteva ritenersi così grave, soprattutto sul piano oggettivo da rendere addirittura impossibile la prosecuzione dei rapporto. Avverso la predetta sentenza hanno proposto, nell’interesse del lavoratore, distinti ricorsi per cassazione l’avv. L.C., con tre motivi, illustrati da memoria, e gli avvocati P.T., B.C. e S. B., con tre motivi. La società Axel s.r.l. ha resistito con controricorso, anch’esso assistito da memoria. Motivi della decisione I ricorsi devono preliminarmente essere riuniti, ex art. 335 c.p.c., in quantoproposti nei confronti della medesima sentenza. E’ da precisare che il primo di essi, a cura dell’avv. L.C., recante la data dei 6/2/2013, risulta affidato per la notifica e notificato a mani il 7/2/2013; mentre il secondo, a cura degli avvocati T., C. e B. (peraltro revocati dal G. con dichiarazione dell’8/2/2013), recante la data dei 7/2/2013, risulta affidato al servizio postale per la notifica il 7/2/2013 ma pervenuto al domiciliatario di Axel s.r.l. il 14/2 successivo. Su tali premesse il ricorso notificato il 14/2/2013 deve essere dichiarato inammissibile. Esso, infatti, pur tempestivamente affidato per la notifica entro il termine annuale (vigente ratione temporis), di cui all’art. 327 c.p.c., risulta portato a conoscenza della controparte in data successiva a quella dell’altro ricorso. Ne consegue che, allorquando il procedimento di notifica del ricorso in oggetto è stato completato, la parte aveva già consumato il proprio potere di impugnazione, con il perfezionamento della notifica del primo ricorso, nei confronti dei destinatario, già in data 7/2/2013, non rilevando la tempestività di entrambi i mezzi di impugnazione ai fini del rispetto del termine di decadenza e, nel conflitto di essi, dovendosi assicurare preminenza al mezzo che, in quanto portato preventivamente a conoscenza della controparte, ne hadeterminato e condizionato l’attività difensiva. D’altra parte, non possono trovare ingresso, nel giudizio introdotto con il primo ricorso, i profili di censura dedotti con il secondo, non essendo consentita, nel processo civile di cassazione, la proposizione di motivi aggiunti (cfr. Cass. 17 aprile 2003, n. 6165). Ciò premesso, possono formare oggetto di esame nella presente sede soltanto i motivi redatti dall’avv. L.C., con ricorso inoltrato all’UNEP e notificato (a mani) il 7/2/2013. Con il primo di essi il ricorrente censura la sentenza impugnata, al sensi dell’art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 7 I. n. 300/1970 e di altre norme di legge e collettive, nonché per vizio di motivazione, nella parte in cui ha escluso la genericità della contestazione disciplinare. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia nuovamente la violazione dell’art. 7 I. n. 300/1970, nonché vizio di motivazione, con riferimento alla parte della sentenza in cui la Corte ha escluso la illegittimità dei licenziamento per mancata affissione dei codice r disciplinare. Con il terzo motivo il ricorrente censura la sentenza, per violazione dell’art. 2106 c.c. e vizio di motivazione, laddove ha ritenuto proporzionata la sanzione del licenziamento per giustificato motivo soggettivo senzaesaminare e considerare adeguatamente le circostanze dei fatto. II primo motivo non è fondato. La Corte territoriale ha, infatti, con motivazione adeguata, ritenuto il carattere sufficientemente specifico della lettera di contestazione disciplinare, dopo di averne esaminato il contenuto con riferimento a tutti gli elementi essenziali volti a descrivere il comportamento addebitato al lavoratore; e correttamente sottolineato, in linea con la giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità, come in tale indagine debba aversi riguardo alle finalità sostanziali proprie della contestazione, che sono quelle di porre il lavoratore in grado di esplicare pienamente il suo diritto di difesa. E’ fondato e deve essere accolto il terzo motivo di ricorso. Deve premettersi che al ricorrente è stato contestato di avere, durante l’orario di lavoro, eseguito attività per conto proprio, fuori della postazione di lavoro senza alcun permesso e utilizzando attrezzature sulle quali non era stato preventivamente addestrato. Ciò posto, deve essere ribadito l’orientamento per il quale, in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione dellagravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi in considerazione la circostanza che, a tutela dei lavoratore, il suo inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria dei rapporto (Cass. 10 dicembre 2007, n. 25743; conf. Cass. 22 marzo 2010, n. 6848). Tale valutazione di notevole inadempimento, che deve necessariamente tenere conto delle peculiarità della singola fattispecie e, pertanto, dei complesso di circostanze che concretamente la definiscono, non risulta compiuta dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata. La Corte, infatti, in primo luogo fonda il proprio giudizio di gravità sul rilievo secondo il quale la condotta ascritta al lavoratore costituirebbe una forma di insubordinazione; osserva, quindi, che destinare il tempo retribuito dal datore di lavoro e ii beni aziendali a scopi personali rappresenta una sorta di appropriazione indebita e che l’utilizzo di una macchina, riguardo alla quale non si èricevuta adeguata formazione, costituisce fonte (potenziale) di gravi pericoli e di ingenti danni (pag. 8). E’, tuttavia, evidente che, nella specie, non si è verificata, né risulta contestata, alcuna condotta che possa considerarsi come insubordinazione, la cui nozione è ristretta, in ogni ambito, alla condotta di chi rifiuti di ottemperare ad una direttiva o ad un ordine, giustificato e legittimo, di svolgere una diversa attività o un diverso compito. Ed è ancora evidente che la Corte territoriale ha posto a fondamento della valutazione di gravità rilievi di portata generale, disgiunti da una pur necessaria analisi del caso concreto e, in particolare, trascurando di fare oggetto di esame la durata dei contestato abbandono del posto di lavoro, i tempi e le modalità dell’operazione in corso, la natura della macchina e di ogni altra attrezzatura impiegata per scopi personali, la conseguente ed effettiva necessità di uno specifico addestramento su di essa come l’entità del rischio collegato ad un uso non appropriato. In definitiva, risulta omesso nella sentenza impugnata ogni specifico riferimento ai profili oggettivi e fattuali dell’episodio oggetto di addebito disciplinare, essendosi dalla Corte territoriale specificamente indagato solo l’aspetto soggettivo rappresentato dal fatto che il lavoratore aveva già ricevuto neidue anni precedenti quattro contestazioni, tre delle quali seguite da sanzione (cfr. ancora sentenza, pag. 8). L’accoglimento del motivo in oggetto comporta l’assorbimento del secondo. La sentenza impugnata della Corte di appello di Trieste (n. 268/2011) deve, pertanto, essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa rinviata, anche per le spese, alla Corte di appello di Venezia, la quale si atterrà al principio di diritto sopra richiamato, svolgendo le valutazioni del caso concreto che vi sono direttamente implicate. Il G. deve peraltro essere condannato alle spese di giudizio relative al secondo e inammissibile ricorso, spese che si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. la Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il terzo motivo dei ricorso notificato il 7/2/2013, rigetta il primo, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Venezia; dichiara inammissibile il ricorso successivamente notificato e condanna C.G., in relazione a tale ricorso, alle spese relative, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 2.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 dei 2002, dà atto detta sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte deiricorrente in ordine al secondo ricorso, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma i bis dello stesso articolo 13. 

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[1] Cass. sent. n. 8236/16 del 26.04.2016.

(Fonte: La Legge per tutti) 

 


Ordine dei Consulenti del Lavoro Consiglio Provinciale di Palermo
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